Solidarietà e resistenza contro la repressione

Intervista al compagno Luigi Spera

Luigi Spera è un vigile del fuoco, tesserato Usb e compagno del collettivo Antudo. È stato accusato di aver compiuto atti di “natura terroristica” durante un’azione dimostrativa svoltasi nel novembre 2022 alla sede di Palermo della Leonardo Spa.
Da allora contro Luigi è iniziata una lunga e pesante persecuzione (carcerazione, prolungato regime di isolamento a Palermo, trasferimento punitivo ad Alessandria), fino a quando, nel dicembre 2024, il Tribunale del Riesame ha escluso dalle accuse l’aggravante terroristica e ha ordinato la sua scarcerazione, corredata da alcune misure cautelari (obbligo di firma, dimora nel comune di residenza e divieto di allontanarsi dalla sua abitazione in orario notturno).
In questa fase in cui la repressione aumenta e si generalizza, assumere un giusto atteggiamento verso di essa è una questione decisiva per lo sviluppo della lotta di classe, per lo sviluppo del movimento antimperialista e la rinascita del movimento comunista nel nostro paese.
Abbiamo ragionato con Luigi della sua esperienza in carcere, di come affrontare la lotta alla repressione e di come ribaltare la repressione contro il nemico.

Luigi raccontaci della tua esperienza in carcere
L’esperienza è stata chiaramente negativa, anche se ci sono stati aspetti positivi. Ho avuto modo di conoscere le condizioni in cui versano le carceri italiane e come il sistema di carcerazione agisce sui prigionieri. Ho avuto modo di vivere un carcere come quello del Pagliarelli di Palermo, cioè un carcere molto grande con quasi duemila detenuti, e capirne le peculiarità: sovraffollamento, burocrazia esasperante, tempi dilatati, numero molto ridotto di personale sanitario.
Il mese che sono stato detenuto al Pagliarelli l’ho trascorso tutto in isolamento, però riuscivo ad avere un contatto con gli altri detenuti, ci parlavamo dalle finestre.
I restanti sette mesi e mezzo li ho trascorsi nella sezione di alta sicurezza del carcere di San Michele di Alessandria, un carcere con meno di 440 detenuti, con pene lunghe e definitive; dunque una casa di reclusione che ha una struttura diversa, anche se le problematiche sono le stesse, come il sovraffollamento, seppur non nella sezione di alta sicurezza in cui ho trascorso i sette mesi. Qui eravamo in tutto in sette, ognuno nella propria cella singola.
Qui ho avuto modo di conoscere alcuni compagni rivoluzionari arrestati nei primi anni Ottanta e che sono ancora prigionieri dello Stato italiano. Con loro ho avuto modo di avere un confronto diretto su quel periodo, su quella stagione di lotta. Questa è stata un’esperienza positiva che mi ha arricchito sia dal punto di vista politico che umano.
Ovviamente la detenzione nella sezione di alta sicurezza è particolarmente dura come prima esperienza detentiva perché si sente forte la costrizione fisica, cioè il fatto di dover stare rinchiusi in una cella di poco più di tre metri quadri e quindi diventa centrale la capacità di organizzarsi le giornate e il tempo, trovarsi dei piccoli obiettivi giornalieri da portare a termine come leggere molto, scrivere, studiare, tenersi in forma svolgendo attività fisica. Nel mio caso è stata fondamentale tutta la solidarietà ricevuta da centinaia e centinaia di compagni e compagne, persone che mi hanno scritto da tutta Italia, ma anche da diversi paesi europei.

La repressione colpisce in modo mirato le avanguardie, quelli che si mobilitano e si organizzano per resistere e costruire un’alternativa nei posti di lavoro, nelle scuole, nella società. La classe dominante è costretta a colpire per difendere il suo sistema nel momento in cui non riesce più a impedire la mobilitazione e l’organizzazione delle masse popolari. Per questo motivo affermiamo che l’aumento della repressione è indice della difficoltà del nemico di classe a gestire il rapporto con le masse popolari allo stesso modo con cui lo ha fatto finora. La crisi economica e politica induce la borghesia a intraprendere la strada della guerra come unico sbocco per tentare di far fronte alla situazione. Cosa ne pensi di questo inquadramento della repressione?
Sono d’accordo: lo Stato ha sempre messo in atto tramite la repressione un duplice approccio in termini anti rivoluzionari, cioè annientamento e mediazione. Lo scopo è annientare le avanguardie in modo da intimidire la parte più arretrata dei movimenti. Arretrata da un punto di vista rivoluzionario, le seleziona per poter mediare con loro.
Quindi, il fatto che lo Stato stia innalzando il livello della repressione lascia pensare che intanto ci siano avanguardie e punte più avanzate, cioè che ci sia da parte dello Stato quanto meno la paura che si generino queste avanguardie e questo di per sé potrebbe già essere considerata una cosa positiva. Inoltre l’aumento della repressione è una dimostrazione delle difficoltà a governare il possibile malcontento.

Il governo Meloni è complice della Comunità Internazionale dei gruppi imperialisti Usa, sionisti e Ue, e ha trascinato il nostro paese nella Terza guerra mondiale alla mercé della Nato; è complice del genocidio in Palestina; sostiene lo smantellamento dell’apparato produttivo e la speculazione delle grandi opere inutili e dannose; alimenta il razzismo di Stato e aumenta la repressione. Il disegno di legge 1660 (ora rinominato n. 1236) va in questo senso, è come un salto nella repressione di chi si mobilita, protesta e manifesta. Cosa ne pensi?
Sono d’accordo con le considerazioni contenute nella domanda e cioè che il governo Meloni ci sta trascinando nella Terza guerra mondiale, aprendo un fronte di guerra esterno, finanziando e foraggiando di armi l’Ucraina e Israele. Ma si sta anche preparando, tramite il famoso pacchetto sicurezza (ddl 1660 ora rinominato 1236), a far fronte a una guerra interna.
È chiaro che nel momento in cui il governo taglia sui servizi sociali, sulla sanità, sull’istruzione e sposta questi fondi sulla corsa agli armamenti e via dicendo crea le condizioni affinché cresca all’interno del paese lo scontro di classe, cioè lo scontro che la borghesia porta avanti nei confronti delle classi lavoratrici e delle classi meno abbienti e di contro si attrezza tramite questi strumenti giuridici per difendersi dalle lotte, dalla resistenza di tutti quei soggetti sociali che si oppongono a queste politiche.
Ovviamente è positivo che si sia creato un percorso nazionale contro questo pacchetto sicurezza, la repressione e le derive securitarie di questo governo; si stanno sviluppando iniziative e mobilitazioni anche a Palermo e stanno andando abbastanza bene. Non bisogna stupirsi della repressione delle lotte, è importante che questa vada combattuta nei campi specifici per accrescere in termini numerici e di qualità le lotte in tutti quei campi che il pacchetto sicurezza sta attenzionando, mettendo in campo delle pratiche più avanzate e radicali: non c’è altro modo per combattere la repressione che mettere in atto quello che la repressione vuole bloccare.

Il 5 ottobre scorso, a Roma, i manifestanti hanno fatto carta straccia dei divieti con cui il governo voleva vietare la manifestazione in solidarietà al popolo palestinese. Riteniamo che quell’esperienza indichi la via da seguire per rendere la lotta contro le misure ingiuste del governo un problema politico e di ordine pubblico. Cosa ne pensi in proposito?
La manifestazione del 5 ottobre è un esempio di quanto ho appena detto: nel momento in cui ci vieteranno di fare i picchetti davanti alle fabbriche sarà inutile indire manifestazioni, anche autorizzate, in cui denunciare il divieto di fare i picchetti davanti alle fabbriche, quello che dovremo fare sarà organizzare e fare questi picchetti. Se verrà vietato di fare manifestazioni contro i cantieri delle grandi opere, se vogliamo contrastare questi divieti dovremo fare i blocchi dei cantieri. Questo è il punto. Come è avvenuto il 5 ottobre: davanti a un divieto di manifestare in solidarietà col popolo palestinese si è messa in campo la manifestazione ed era questa l’unica risposta efficace che si poteva dare!

In che modo le avanguardie di lotta, gli antimperialisti devono relazionarsi con i lavoratori – anche delle fabbriche di morte – per coinvolgerli nella lotta contro l’escalation bellica e l’economia di guerra?
La tendenza alla guerra va inquadrata nel momento di crisi di iperproduzione del capitalismo. Le guerre sono la soluzione perfetta perché, da un lato, distruggono territori e vite, dall’altro, spingono gli Stati e le istituzioni sovranazionali alla produzione di armamenti. Quello che va spiegato ai lavoratori, che potrebbero vedere erroneamente questi investimenti come positivi (a Palermo abbiamo Fincantieri e Leonardo che allo scoppio dei recenti conflitti hanno vinto commesse e fatto assunzioni) è che si tratta di andare a lavorare per pagare il mutuo della propria casa e fabbricare poi quei mezzi che la distruggeranno. Dunque bisogna trovare soluzioni tattiche per far uscire i lavoratori da questa impasse, parlo di soluzione tattica perché chiaramente la soluzione sarebbe rifiutarsi di andare a lavorare e disertare il meccanismo bellico, però è anche vero che bisognerà trovare uno stratagemma tattico per fare delle lotte – ad esempio per la riconversione di alcuni impianti da militari a civili. Su questo faccio il parallelo con la questione dell’Ilva dove i lavoratori dovevano scegliere se morire di fame o morire di cancro. La lotta puntò sulla riconversione dello stabilimento e nonostante non sia una lotta rivoluzionaria, tatticamente è funzionale, è un concetto più comprensibile e risponde a una problematica reale che affligge il Meridione, cioè la mancanza di lavoro.

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