Stellantis. La classe operaia e il governo Meloni

Lo scorso 17 dicembre il responsabile di Stellantis per l’Europa Jean-Philippe Imparato ha presentato il piano Italia al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT). Il presidente Giorgia Meloni, nella conferenza stampa dello scorso 9 gennaio, ha espresso soddisfazione per l’intesa raggiunta, a tal punto che sta già preparando il tappeto rosso a Elkann, che il prossimo 19 marzo andrà in Parlamento a presentare le linee guida del piano. Mentre Fiom e Uilm tentennano tra il dar fiducia al “piano di ripartenza” e proseguire la mobilitazione verso governo italiano ed Europa affinché assicurino la continuità produttiva e tutelino i lavoratori.

Quella che va in scena è però la trama di un film trasmesso più e più volte negli ultimi 20 anni, in cui il manager di turno rassicura di mantenere la produzione e i livelli occupazionali in Italia, il governo applaude, una parte dei sindacati si acquieta in attesa e lo smantellamento del settore prosegue. Per Stellantis così è stato quando c’erano Sergio Marchionne, Mike Manley e Carlos Tavares.

Come da tradizione dunque più che piano Italia,quello presentato da Imparato è un piano con cui prosegue l’abbandono della produzione di autoveicoli in Italia da parte del gruppo Agnelli-Elkann, per spostarla in paesi dove gli è possibile sfruttare lavoratori e ambiente con meno vincoli. Operazione cominciata con la fusione Fiat-Chrysler prima e proseguita con la fusione Fca-Peugeot dopo che, grazie anche alla collaborazione dei governi di Larghe intese che si sono alternati, ha portato alla chiusura di stabilimenti con delocalizzazioni, disinvestimenti, cassa integrazione e contratti di solidarietà.

Situazioni simili si ripetono in centinaia di altre aziende – sono decine i tavoli di crisi attivi al Mise e altrettanti sono i tavoli di monitoraggio. Finché sono i capitalisti a dettare legge continuerà infatti la svendita dell’apparato produttivo del paese, continuerà l’eliminazione delle conquiste strappate con le lotte operaie del passato e l’uso e abuso di ammortizzatori sociali. Alla fine del 2024, ad esempio, erano ancora 7 milioni e 430 mila i lavoratori in attesa del rinnovo del loro Ccnl, più di un terzo del totale dei lavoratori dipendenti, mentre nello stesso anno, le ore di Cassa integrazione autorizzate dall’Inps sono state più di 507 milioni, il 20% in più del 2023.

Delegare la difesa di Stellantis a chi vuole smantellarla avrà come unico risvolto quello di dire addio alla produzione di autoveicoli e componenti in Italia, con conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro in tutto il paese.

Il futuro di Stellantis, delle altre fabbriche del gruppo Agnelli-Elkann e del loro indotto quindi non può più dipendere dai piani e dalle politiche industriali fatti da chi, in combutta con il Governo Meloni, vuole chiudere e delocalizzare la produzione. Il futuro di Stellantis è già nelle mani degli operai che lottano a difesa dei loro posti di lavoro, come hanno dimostrato lo sciopero del 18 ottobre e la lotta degli operai Trasnova, ma anche come hanno dimostrato gli scioperi generali del 29 novembre e del 13 dicembre scorsi e quello per il rinnovo del Ccnl dei metalmeccanici dello scorso gennaio.

Manchette. Mandare all’aria il piano Angelli-Elkann vuol dire anche sostenere la resistenza palestinese e dei popoli oppressi di tutto il mondo e infliggere un duro colpo all’entità sionista e a uno dei suoi principali addentellati industriali, finanziari e mediatici del nostro paese. Proprio John Elkann, ad esempio, è amministratore delegato della società finanziaria Exor, presidente di gruppo Stellantis, di Ferrari, di GEDI Gruppo Editoriale (la Repubblica, La Stampa, Haffinghton Post, Radio Deejay, ecc.) e della Fondazione Giovanni Agnelli. Per questo è una battaglia che non riguarda solo gli operai Stellantis ma l’intero movimento di resistenza del nostro paese contro il coinvolgimento dell’Italia nella terza guerra mondiale in corso e in solidarietà con il popolo palestinese e tutti i popoli oppressi dall’imperialismo.

Per avanzare nelle lotte che sta conducendo, la classe operaia deve estendere e rafforzare la propria azione; deve rendere le sue forme di lotta all’altezza della situazione d’emergenza ed essere da traino anche per i sindacati.

Farlo vuol dire innanzitutto promuovere, all’interno del proprio posto di lavoro, la costruzione di un comitato composto dagli operai più combattivi e decisi, compresi quelli delle aziende esterne (per esempio i lavoratori della mense, delle pulizie ecc..) a prescindere dalla tessera sindacale che hanno in tasca o dalla loro posizione politica. L’aspetto decisivo è l’appartenenza di classe.

Per costruirlo bisogna approfittare di ogni occasione di incontro e confronto, dentro o fuori dal lavoro; raccogliendo quella che è stata l’esperienza degli operai che hanno fatto parte dei Consigli di fabbrica degli anni ‘70 e l’esperienza di Collettivi di fabbrica come quello della ex Gkn di Campi Bisenzio (Fi).

Solo gli operai organizzati in ogni azienda, coordinati tra loro da un capo all’altro del paese hanno la forza di impedire la chiusura e la delocalizzazione di Stellantis come delle altre aziende del paese, trovando forme di lotta adeguate. Oggi non servono certo scioperi per fare sfilate e tornare a casa come prima; servono scioperi che violino precettazioni, servono iniziative che permettano di campare chi è a casa o in cassa integrazione (come lo erano gli espropri proletari e il non pagamento delle bollette ad esempio). Servono mobilitazioni e scioperi che inizino a fare sul serio, per dare gambe alla rivolta sociale annunciata da Landini!

Di diverso dagli anni ’70 c’è che oggi strappare una conquista non mette al sicuro da un altro attacco, la situazione è tale che il problema non è della singola azienda o settore. Il problema è politico e lo è la soluzione. Diventare nuova classe dirigente significa lottare oggi per il governo del paese. Significa mobilitarsi uniti per cacciare il governo Meloni e la manica di speculatori e affaristi che stanno facendo a pezzi l’apparato produttivo del paese. Significa iniziare a costruire da questo il nuovo governo del paese.

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