I ferrovieri non sono in guerra. Intervista a un ferroviere della Cub Trasporti

David, puoi spiegarci cos’è l’accordo fra Rfi e Leonardo sulla Military mobility?
Sì, due grandi aziende, in origine sotto controllo pubblico, ma di diritto privatissimo, una di produzione ad alto contenuto tecnologico e l’altra gestore della rete ferroviaria nazionale anche all’avanguardia internazionale nei sistemi di circolazione, stabiliscono un protocollo di intesa per la movimentazione di convogli di materiale bellico sul territorio nazionale.
Dai siti produttivi (le fabbriche) e dai depositi (le basi militari) ai luoghi di invio, cioè frontiere ferroviarie, aeroporti e porti. Il tutto condito, nella descrizione, da una esagerata campitura tecnologica. Si preparano cioè a rendere la nazione un crocevia logistico di passaggio per le eventuali guerre da sostenere.
Fin qui, se vogliamo, niente di nuovo. Il punto politico è il coinvolgimento bellico, di lì tutto è in derivazione. L’accordo rivela quel presupposto essendone applicazione, rispetto a una percezione di normalità che il cittadino medio può avere e che, anche posto davanti alla frase “qui si fanno e qui passano le armi che distruggeranno vite, scuole, ospedali, edifici”, resta tiepido perché non vede quelle cose intorno al suo raggio di affetti.
Ma la guerra c’è da almeno due anni e le guerre a bassa intensità combattute con l’appoggio industriale italiano ci sono forse da sempre. Cosa cambia dunque ora? Dal febbraio 2022 abbiamo visto le colonne di carri armati montati sui treni diretti alla frontiera del Nord-est fotografati e filmati alle stazioni.
La domanda secondo me interessante è quindi: “Perché hanno deciso di rendere pubblica quell’intesa?”. Potevano, infatti, tranquillamente tenersela fra i segreti industriali. Trovo utile, sebbene non disponga di una risposta, soffermarci su questo, perché il resto lo sappiamo già in termini di implicazioni.
Una risposta plausibile è che faccia parte del combattuto fronte interno: la propaganda si sente forte e sente di poter parlare di queste cose come se creassero consenso, con un pizzico di raggi laser, orgoglio industriale “made in Italy” e una sottintesa promessa di beneficio per gli italiani (poveri illusi che prendono gli aggettivi per universali nella più classica delle bugie nazionalistiche). L’orrore è diluito fino a sparire attraverso il tecnicismo, la futurologia e il business per tutti. Il tenore del testo è di chi non teme direttamente di sollevare obiezioni; scommettono sul passaggio di consenso da creare.
Un secondo tipo di risposta è quello per cui fanno dire all’industria quello che la politica non si azzarda a dire. Un avvicinamento per passi alla dichiarazione di coinvolgimento bellico. Detto meglio, ci si muove producendo un effetto eco per cui, se tutti da più parti del mondo dicono la stessa cosa, preparano la platea degli ascoltatori all’affermazione finale che il governo sancirà: siamo in guerra. Perché è ovvio: l’avallo governativo all’operazione sottesa all’accordo precede l’accordo stesso.
L’ultima possibile risposta sta nel preavvisare. Se e quando i racconti delle atrocità si faranno più vicini e penetranti verso l’opinione pubblica, quando torneranno le bare o vedremo la bandiera insanguinata, al momento cioè che nell’opinione pubblica potrà nascere un forte e unificante sentimento di repellenza alla guerra e alle armi, allora potranno sempre dire che ci avevano messo al corrente fin dall’inizio.
Detto per inciso: chi ha familiarità con la Germania sa che nelle strade e autostrade tedesche vi è una segnaletica sussidiaria (piccola e gialla a metà palo) per il transito dei mezzi militari.

Avete in programma delle mobilitazioni? Come pensate di muovervi?
Il problema della sensibilità media si ritrova pari pari nel mondo dei ferrovieri. Sulla guerra ci siamo mossi dal febbraio 2022 cercando di fare delle cose (esplorare lo statuto legale della “obiezione di coscienza”, analizzare le strategie dei portuali, mandare alle aziende delle diffide sulle forzature rispetto agli operatori ferroviari che si rifiuteranno di prestare servizio al trasporto militare, cercare di dare sponda con indicazioni operative a chi vorrà smarcarsi dal contributo di lavoro alla guerra ecc.), ma è mancata molto la crescita del dibattito nella categoria con il coinvolgimento ampio. Ognuno sta nel suo buco, magari sentendosi offeso, ma non produce legami.
Certo, responsabilità nostra non aver sollecitato quella sensibilità. Inutile dire che le grandi centrali sindacali non hanno mosso un dito, anzi sono tutte dedite, in questa come in ogni altro tema, a dividere i lavoratori mantenendoli nei loro differenti posti e figure professionali e a dare becchime di accontentamento spicciolo, ma al contempo di chiusura, alle tematiche comuni.
Pensiamo tuttavia che oggi, dopo l’accordo Leonardo-Rfi, si possa ritentare di riaggregare sugli stessi temi dell’inizio del conflitto in Ucraina e abbiamo lanciato una riunione di verifica che si è svolta il 26 giugno. Per fare cosa? Vedremo, fossero anche le stesse cose (ma più sono le teste, più le idee), sarebbe ben diverso il rilievo dei numeri di chi le fa.

Come già in passato, anche altri settori di lavoratori si stanno mobilitando contro la logistica di guerra. Pensi sia possibile oggi fare un passo avanti nel coordinamento su questo fronte?
Sorrido perché osservo un cortocircuito involontario fra mobilitazione, mobility (military), mobilità (il diritto del cittadino astratto, impiegato dalla Commissione di Garanzia per tamponare gli scioperi) e mobilità (la pre-disoccupazione) con cui ci troviamo spesso a che fare nel vedere la falcidia di posti di lavoro nelle varie ristrutturazioni.
Venendo a noi, guardo con favore a qualsiasi iniziativa, quella dei portuali fra le più avanzate nel coniugare lavoro e pratica di ostruzione. Vedo con favore ogni coordinamento delle lotte, ma le operazioni non si fanno a tavolino e, specialmente per le mobilitazioni che coinvolgono i lavoratori, i passaggi devono necessariamente essere vissuti fra la gente. Non ci sono scorciatoie.
Tra i ferrovieri l’accordo Rfi-Leonardo ha permesso di riaccendere le attenzioni e le sensibilità sul tema e così abbiamo rilanciato nuovamente (dopo il 2022) un coordinamento che possa mettere a lavoro lo specifico apporto che i ferrovieri possono dare. Tutto da costruire sui numeri e sulle iniziative che vorremo darci.
La risposta alla domanda, per non sembrare quindi il pessimista “della rondine che non fa primavera”, al contrario vuole essere di speranza concreta circa “i movimenti contro la guerra”, che sono movimenti di opinione. Del resto ognuno di noi col proprio retroterra è magari inserito in formazioni che già hanno fatto presidi o manifestazioni e prodotto materiale. Con più cautela e piedi a terra, misurerei quanto può esprimere il mondo del lavoro, con le maggiori potenzialità di boicottare l’economia di guerra in cui ci stiamo sempre più infilando.

Per contatti – ferroviericg@protonmail.com

***

Accordo Rfi-Leonardo. I ferrovieri sono già in guerra?

La rete ferroviaria italiana si accinge a far parte dei progetti di Mobilità militare (Military mobility), entrando a pieno titolo nei preparativi di guerra perseguiti da tempo, ma con un’accelerazione straordinaria negli ultimi mesi, dalla Ue e dal governo italiano.
Il 15 aprile scorso, la più importante azienda bellica italiana, la Leonardo, ha siglato un accordo in tal senso con Rfi.
L’accordo si propone di “assicurare la movimentazione di risorse militari, all’interno e all’esterno dell’Europa” anche “con breve preavviso e su larga scala”.
Il comunicato stampa diramato da Leonardo e Rfi precisa che la mobilità militare avverrà in “situazioni ordinarie e straordinarie” e che “il trasporto di materiale militare” sarà realizzato “attraverso infrastrutture dual-use”, cioè sui binari e gli impianti della rete utilizzati per il normale traffico passeggeri e merci, che verranno sottoposti alla supervisione e al controllo di Leonardo attraverso “tecniche avanzate di A.I.” e di uno dei “super computer più potenti del settore aerospazio, difesa e sicurezza”.
La circolazione ferroviaria, secondo tale accordo, verrà integrata nelle piattaforme militari di mobilità aeree e terrestri.
In poche parole, si sta attuando, nel silenzio generale, la militarizzazione del settore ferroviario e il passaggio delle infrastrutture sotto il controllo dell’industria militare più potente d’Italia, al fine di assecondare l’escalation alla guerra voluta dalla Nato.
Ricordiamo che negli ultimi mesi i profitti di Leonardo sono passati da 40 a 459 milioni, grazie alle super vendite di sistemi militari all’Ucraina, a Israele e a regimi in guerra di mezzo mondo. Profitti che grondano del sangue dei bambini di Gaza.
Ricordiamo anche che il Ministro della Difesa, Crosetto, proviene dal settore dell’aerospazio, implicato in progetti bellicisti o “dual-use”.
(…) Non facciamoci trascinare nella guerra!
Difendiamo il trasporto pubblico.

06.06.2024 Cub Trasporti”

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