Pubblichiamo l’intervista a una compagna di Ecologia Politica – Milano che ha partecipato all’accampata all’Università Statale, mobilitazione che è stata parte del più ampio movimento studentesco che ha occupato decine di università in tutta Italia in solidarietà alla resistenza del popolo palestinese.
Come è nata e come si è sviluppata la vostra mobilitazione?
Tutto è iniziato con il 7 ottobre. Subito si è tenuta una prima assemblea del movimento universitario milanese chiamata dai Giovani Palestinesi, che ha visto, fin da quel momento, l’unione di tante realtà anche molto diverse tra loro, dagli anarchici ai marxisti-leninisti. Questo ha posto, già dall’inizio, le premesse per un movimento nuovo nel panorama milanese degli ultimi anni, finalmente unitario.
In primavera, sono iniziate le occupazioni delle università a livello internazionale e a maggio pure noi abbiamo deciso di occupare, anche per provare a sfondare finalmente le barriere della comunicazione.
La cosa che mi ha stupito, anche qui, è che questa decisione l’abbiamo presa assieme a una quantità di movimenti e organizzazioni molto differenti tra loro (anche perché nei mesi trascorsi da ottobre e in vista dell’occupazione nuove realtà si erano aggregate). Un’eterogeneità che, soprattutto all’inizio, quasi spaventava, perché era un bel po’ che non vedevo tante teste diverse riunirsi.
Alla Statale, come nelle altre università, l’occupazione si è sviluppata sulla rivendicazione della fine degli accordi con gli atenei e le aziende israeliane o che collaborano con i sionisti.
La nostra è un’università di scienze umanistiche e non abbiamo la mole di accordi che può avere, ad esempio, il Politecnico, che lavora con aziende come la Leonardo e in generale nel campo della tecnologia bellica. Ci siamo quindi focalizzati sull’accordo con la Reichman University, che si trova in territorio occupato, al confine con la Cisgiordania, e con cui l’Università Statale ha un progetto di scambio di studenti.
La Reichman, che è stata difesa a spada tratta dalle nostre istituzioni universitarie, soprattutto inizialmente, è in realtà pienamente interna alla cultura sionista: ci sono borse di studio per i militari, ex generali e agenti del Mossad nel Consiglio d’amministrazione e l’ateneo organizza eventi e corsi con i servizi segreti.
Parallelamente all’occupazione, portavamo avanti la rivendicazione anche da un punto di vista più istituzionale, nei senati accademici. Dicevo che il coordinamento era molto eterogeneo: dentro c’erano anche realtà che già lavoravano all’interno di questi organi e avevano quindi dei corridoi di comunicazione che abbiamo sfruttato.
Inizialmente, i senati accademici non ne volevano sapere delle nostre rivendicazioni. Poi, con lo sviluppo della mobilitazione, si è creato un apposito organo per trattare gli accordi che contestiamo.
A questo punto il senato accademico ha cominciato a dire che non si poteva arrivare a nessuna decisione con l’occupazione ancora in corso. Abbiamo quindi deciso di sgomberare, mantenendo però un’aula occupata per portare avanti le attività e aspettare la nuova riunione del senato accademico dove, una volta tolte le tende, si dovevano definire i parametri per discutere finalmente dell’accordo che contestiamo. Ma, nonostante le promesse, niente di tutto questo è stato fatto: la scusa è stata che la situazione è “troppo complicata” per procedere con la discussione.
Hanno usato i soliti sotterfugi istituzionali per farci smobilitare quando in realtà non c’era nessuna reale volontà di intervenire. Non che ci sia troppo da stupirsi.
Ora le mobilitazioni stanno continuando, stiamo cercando di uscire dalle università. Continuiamo a promuovere il corteo che ogni sabato attraversa la città da ottobre scorso e altre importanti iniziative, come quella organizzata per il 25 giugno al porto di Genova con il Calp. La promessa è di rilanciare a settembre.
Quali sono secondo te i principali insegnamenti e aspetti positivi di questa esperienza?
Al di là dell’esito della rivendicazione in sé, ha avuto molta più importanza la creazione di queste nuove connessioni nel movimento studentesco. Infatti, se inizialmente le assemblee dell’accampata erano molto difficili, perché mettere tutte quelle teste assieme è molto complesso, vivere a stretto contatto tutti i giorni per tre settimane nell’occupazione ha portato a sviluppare una nuova tipologia di comunicazione tra i diversi gruppi e movimenti. Alla fine le diverse posizioni esposte in assemblea non erano più dettate semplicemente dall’appartenenza a questo o a quel gruppo come all’inizio, ma da una genuina lotta tra idee differenti per decidere cosa fosse meglio fare.
Ci sono state poi una miriade di attività, gruppi di studio, iniziative, declinate in mille sfaccettature relative alle diverse sensibilità presenti nell’accampata, che hanno contribuito a creare una visione comune. Inoltre, penso sia stato molto importante il ruolo dei “singoli”, cioè di chi ha partecipato pur non facendo parte di nessuna realtà organizzata. Questo ha reso più facile rompere le bolle in cui ogni gruppo tendeva a chiudersi.
Insomma si è iniziato a dire: “se davvero vogliamo farla funzionare, non possiamo continuare a odiarci”. Piuttosto dobbiamo iniziare a pensare a cosa sia una “cura del movimento”: come poter far vivere a lungo un movimento e quali sono le cose che a questo movimento interessano.
Penso che dobbiamo usare l’esempio della lotta palestinese per cambiare e rinnovare le nostre lotte. Questo è un momento storico così importante da mettere in discussione anche le nostre pratiche, da un certo punto di vista. Perché ci rendiamo conto che, se vogliamo fare qualcosa di impattante, le pratiche utilizzate finora non sono abbastanza incisive.
Che linee di sviluppo avete individuato per rilanciare la mobilitazione?
Questa è la grande domanda che ha un po’ bloccato l’accampata, che non ha permesso, secondo me, la sua continuazione a oltranza.
Questa mobilitazione è stata presa molto di pancia, gli animi sono molto arrabbiati, e non c’è stata un’organizzazione precedente che abbia permesso uno sviluppo lineare.
La grande sfida, dell’intifada milanese e di tutte quelle studentesche nel mondo, è riuscire a utilizzare l’università come un mezzo che si apra alla cittadinanza, coniugando la lotta in solidarietà alla Palestina con le altre. Non dobbiamo aver paura di prenderci i nostri momenti di riflessione, l’importante è che poi questi siano sempre tesi verso l’esterno. Dobbiamo riuscire a incanalare la mobilitazione non solo di chi è già politicamente attivo, ma anche di chi la questione palestinese la vede da fuori, prova rabbia ma non sa come esprimerla. Ed è una cosa molto difficile.
Questa è una mia riflessione. Di assemblee ce ne sono state diverse, ma trovare una quadra su questo è complicato.
Nella pratica quello che abbiamo fatto è stato lanciare un’assemblea permanente antimperialista, ma la grande sfida è renderla un’assemblea cittadina, che magari si articoli geograficamente nelle varie zone della città, con l’università come punto di riferimento.
Hai un’ultima riflessione?
Non dobbiamo pensare che stia a noi salvare i palestinesi. Si salveranno da soli. Quello che possiamo fare è utilizzare la lotta palestinese in un certo senso come un mezzo, un mezzo molto potente. Il massimo aiuto che possiamo dare a questa lotta è urlarla al massimo possibile, ma per farci sentire questo urlo deve collegarsi ai problemi concreti che viviamo. L’occupazione di terre, la produzione di armi, la politica estera occidentale sono tutti problemi che in Italia esistono da ben prima del 7 ottobre. Dobbiamo trovare la quadra per non sentirci dei salvatori, ma imparare da questa lotta e valorizzarla.