Il fondamento per la vittoria: le parole del (nuovo) PCI e del primo PCI di Antonio Gramsci

La Commissione Gramsci del Partito dei CARC augura alla classe operaia italiana e ai partiti comunisti che prendono posizione alla sua testa, il (nuovo)PCI e il Partito dei CARC, un salto qualitativo nella costruzione della rivoluzione socialista in Italia. Ringrazia il (nuovo)PCI che con il suo Comunicato n.33 diffuso ieri 31 dicembre mette a disposizione di ciascuno una presa di posizione di Antonio Gramsci del 1923, esemplare per chiarezza, profondità e attualità. Gramsci comprende bene quale è il nodo da sciogliere e scrive cose che a 98 anni di distanza sono ancora vere. Una differenza però c’è con ciò che scrive: il limite di cui parla, la mancanza di una elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, di una analisi di classe della società italiana, di una filosofia, di una sociologia e insomma di una scienza della classe operaia è stato affrontato di petto dalla Carovana del (nuovo)PCI a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e oggi è superato in misura sufficiente per operare con determinazione e fiducia. Chiunque ha fatto i corsi sul Manifesto Programma del (nuovo)PCI condotti in questo decennio dal Centro di Formazione del Partito dei CARC, ad esempio, può ricordare come molte delle materie di cui Gramsci lamenta la mancanza di studio sono state trattate in dettaglio (vedi ad esempio la differente posizione verso il clero delle masse popolari del Sud e di quelle delle regioni a nord del Po, vedi l’analisi di classe, ecc.).

Oggi quindi abbiamo sufficiente conoscenza in campo filosofico, politico, economico per lasciarci alle spalle il limite che Gramsci riconosce e che dichiara superabile con lo studio, quello studio che Lenin raccomandava ai comunisti dei paesi imperialisti e a quelli italiani in particolare con un appello che essi non hanno raccolto[1] (con l’eccezione di Antonio Gramsci che non a caso fu incarcerato e condannato a morte lenta dal regime fascista) almeno fino al lavoro iniziato dalla Carovana 60 anni dopo. Vediamo da quello che scrivono Lenin e Gramsci la loro fiducia sulle prospettive della rivoluzione mondiale e dell’alba di una nuova “giornata proletaria”: la rivoluzione attesa da Lenin e Stalin a partire da paesi come la Germania e l’Italia non ci fu e il fascismo attese altri vent’anni per cadere rispetto alle aspettative di Gramsci in questo articolo del 1923. La ragione di questo sta nel fatto che l’elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, in particolare nella forma indicata da Gramsci (comprare libri, diffondere bibliografie, studiare, fare lezioni, confrontarci su ciò che abbiamo studiato, ecc.) non avvenne. Oggi, a distanza di un secolo, avviene. Un secolo non è tanto tempo per chi è impegnato a chiudere l’epoca della divisione in classi, che dura da almeno settemila anni, ma è anche abbastanza: non abbiamo bisogno di un altro secolo per vincere, ma abbiamo volontà e strumenti per farlo qui e ora.

Riproduciamo l’articolo di Gramsci e invitiamo a farne tesoro per questa elaborazione scientifica dell’esperienza della lotta di classe, scienza inarrivabile da parte della classe nemica, e che la classe nemica non può impedirci di sviluppare e usare come arma per la vittoria.

 

 

Cari amici della Voce,

CHE FARE? [2]

Antonio Gramsci

Ho letto nel n. 10 (15 settembre) della Voce la interessante discussione tra il compagno G.P. di Torino e il compagno S.V. È chiusa la discussione? Si può domandare che ancora per molti numeri la discussione rimanga aperta e invitare tutti i giovani operai di buona volontà a parteciparvi, esprimendo, con sincerità e onestà intellettuale, la loro opinione in proposito?

Come va posto il problema

Incomincio io, e affermo senz’altro che mi pare almeno, il compagno S.V. non ha impostato bene il problema ed è caduto in qualche errore, gravissimo dal suo stesso punto di vista.

Perché è stata sconfitta la classe operaia italiana? Perché essa non aveva una unità? Perché il fascismo è riuscito a sconfiggere, oltre che fisicamente, anche ideologicamente, il partito socialista che era il partito tradizionale del popolo lavoratore italiano? Perché il partito comunista non si è rapidamente sviluppato negli anni 1921-22 e non è riuscito a raggruppare intorno a sé la maggioranza del proletariato e delle masse contadine?

Il compagno S.V. non si pone queste domande. Egli risponde a tutte le angosciose inquietudini che si manifestano nella lettera del compagno G.P. con l’affermazione che sarebbe bastata l’esistenza di un vero partito rivoluzionario e che la sua organizzazione futura basterà nel futuro, quando la classe operaia avrà ripreso la possibilità di movimento. Ma è vero tutto ciò, o, almeno, in che senso ed entro quali limiti è vero?

Il compagno S.V. suggerisce al compagno G.P. di non pensare più entro determinati schemi ma di pensare entro altri schemi che non precisa. Bisogna precisare. Ed ecco cosa appare necessario fare immediatamente, ecco quale deve essere l’«inizio» del lavoro per la classe operaia: bisogna fare una spietata autocritica della nostra debolezza, bisogna incominciare dal domandarsi perché abbiamo perduto, chi eravamo, cosa volevamo, dove volevamo arrivare. Ma bisogna prima fare anche un’altra cosa (si scopre sempre che l’inizio ha sempre un altro… inizio): bisogna fissare i criteri, i principi, le basi ideologiche della nostra stessa critica.

Ha la classe operaia la sua ideologia?

Perché i partiti proletari italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare dalle parole all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare la battaglia. Pensate: in più di trenta anni di vita, il partito socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico- sociale dell’Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato. Perché nella Valle del Po il riformismo si era radicato così profondamente? Perché il partito popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia settentrionale e centrale che nell’Italia del sud, dove pure la popolazione è più arretrata e dovrebbe quindi più facilmente seguire un partito confessionale? Perché in Sicilia i proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché in Sicilia e non altrove si è sviluppato il riformismo dei De Felice, Drago, Tasca di Cutò e consorti? Perché nell’Italia del sud c’è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c’è stata altrove? Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza hanno avuto i fatti di Milano del ’98? Che insegnamento hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero generale di Milano del 1904? Quanti operai sanno che allora, per la prima volta, fu affermata esplicitamente la necessità della dittatura proletaria? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo? Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci sono anche repubblicani? Che importanza e che significato ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?

Basta porsi queste domande per accorgersi che noi siamo completamente ignoranti, che noi siamo disorientati. Sembra che in Italia non si sia mai pensato, mai studiato, mai ricercato. Sembra che la classe operaia italiana non abbia mai avuto una sua concezione della vita, della storia, dello sviluppo della società umana. Eppure, la classe operaia ha una sua concezione: il materialismo storico; eppure, la classe operaia ha avuto dei grandi maestri (Marx, Engels) che hanno mostrato come si esaminano i fatti, le situazioni, e come dall’esame si traggano gli indirizzi per l’azione.

Ecco la nostra debolezza, ecco la principale ragione della disfatta dei partiti rivoluzionari italiani: non avere avuto una ideologia, non averla diffusa tra le masse, non avere fortificato le coscienze dei militanti con delle certezze di carattere morale e psicologico. Come meravigliarsi che qualche operaio sia divenuto fascista? Come meravigliarsene se lo stesso S.V. dice in un punto: «chi sa mai, anche noi, persuasi, potremmo diventare fascisti»? (Queste affermazioni non si fanno neppure per scherzo, neppure per ipotesi di propaganda.) Come meravigliarsene, se in un altro articolo, dello stesso numero della Voce, si dice: «Noi non siamo anticlericali»? Non siamo anticlericali? Che significa ciò? Che non siamo anticlericali in senso massonico, dal punto di vista razionalistico dei borghesi? Bisogna dirlo, ma bisogna dire che noi, classe operaia, siamo anticlericali in quanto siamo materialisti, che noi abbiamo una concezione del mondo che supera tutte le religioni e tutte le filosofie finora nate sul terreno della società divisa in classi. Purtroppo… la concezione non l’abbiamo, ed ecco la ragione di tutti questi errori teorici, che hanno poi un riflesso nella pratica, e ci hanno condotto finora alla sconfitta e all’oppressione fascista.

L’inizio… dell’inizio!

Che fare dunque? Da che punto incominciare? Ecco: secondo me bisogna incominciare proprio da questo; dallo studio della dottrina che è propria della classe operaia, che è la filosofia della classe operaia, che è la sociologia della classe operaia, dallo studio del materialismo storico, dallo studio del marxismo. Ecco uno scopo immediato per i gruppi di amici della Voce: riunirsi, comprare dei libri, organizzare lezioni e conversazioni su questo argomento, formarsi dei criteri solidi di ricerca e di esame e criticare il passato, per essere più forti nell’avvenire e vincere.

La Voce dovrebbe, in tutti i modi possibili, aiutare questo tentativo, pubblicando schemi di lezioni e di conversazioni, dando indicazioni bibliografiche razionali, rispondendo alle domande dei lettori, stimolando la loro buona volontà. Quanto meno finora si è fatto, tanto più è necessario fare, e con la massima rapidità possibile. I fatti incalzano: la piccola borghesia italiana, che aveva riposto nel fascismo le sue speranze e la sua fede, vede quotidianamente crollare il suo castello di carta. L’ideologia fascista ha perduto la sua espansività, perde anzi terreno: spunta nuovamente il primo albore della nuova giornata proletaria.

 

[1] “I compagni stranieri debbono studiare. Non come studiamo noi, cioè non per imparare a leggere, a scrivere e a comprendere ciò che si legge, della qual cosa noi abbiamo ancora bisogno. Si discute se ciò appartiene alla cultura borghese o alla cultura proletaria. Lascio la questione aperta. In ogni caso è indubitabile che, prima di tutto, abbiamo bisogno di imparare a leggere, a scrivere e comprendere ciò che si legge. Gli stranieri non ne hanno bisogno. Essi hanno già bisogno di qualche cosa di più elevato, intendendo con ciò, prima di tutto, anche la necessità di comprendere quel che noi abbiamo scritto sulla struttura organizzativa dei partiti comunisti e che i compagni stranieri hanno firmato senza leggere e senza comprendere. Questo deve essere il loro primo compito. È indispensabile applicare questa risoluzione. Ciò non può esser fatto in una notte. È assolutamente impossibile. La risoluzione è troppo russa: riflette l’esperienza russa e perciò è assolutamente incomprensibile agli stranieri, i quali non possono accontentarsi di appenderla in un angolo, come un’icona, e di pregare davanti ad essa. Così non si può ottenere nulla. I compagni stranieri debbono digerire un buon pezzo di esperienza russa. Come questo avverrà, non lo so. Forse i fascisti in Italia [da neanche un mese c’era stata la “marcia su Roma” – ndr], per esempio, ci renderanno grandi servizi mostrando agli italiani che non sono ancora abbastanza istruiti, che il loro paese non è ancora garantito contro i centoneri. Forse questo sarà molto utile. Anche noi russi dobbiamo cercare i mezzi di spiegare agli stranieri le basi di questa risoluzione. Altrimenti essi non saranno assolutamente in grado di applicarla. Sono persuaso che a questo riguardo dobbiamo dire non soltanto ai compagni russi, ma anche ai compagni stranieri, che nel prossimo periodo l’essenziale è lo studio. Noi studiamo nel senso generale della parola. Essi invece debbono studiare in un senso particolare, per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario. Se questo sarà fatto, sono convinto che le prospettive della rivoluzione mondiale saranno non soltanto buone, ma eccellenti.” (in Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale, Relazione al IV congresso dell’Internazionale Comunista, 13 novembre 1922, in http://www.nuovopci.it/classic/lenin/cinqueriv.htm).

[2] Da “La voce della gioventù”, 1° novembre 1923, firmato Giovanni Masci, poi in A. Gramsci, Sul fascismo, a cura di E. Santarelli, Roma, Editori Riuniti, 1973.

 

 

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