Abbiamo intervistato Andrea, un compagno in contatto con noi che si è attivato, come tanti giovani, per far fronte all’emergenza sanitaria, economica e politica nella sua cittadina, Alghero.

L’esperienza che ci riporta Andrea è interessante perchè dimostra come le esperienze delle Brigate di Solidarietà, comitati di cittadini che si occupano di far fronte agli effetti della crisi, una crisi che è solo peggiorata a causa del Covid-19 e della scellerata gestione dell’emergenza da parte delle autorità italiane, siano un campo importante di emancipazione per molti giovani, per darsi da fare, per fare una scuola di lotta e organizzazione.

Dimostra, la sua esperienza, come oggi sia necessario più di ieri organizzarsi in mille organismi che si occupano di quegli aspetti della società che la classe dominante lascia all’abbandono, al degrado e l’incuria. Sono questi alcuni esempi di organismi che chiamiamo ad attivarsi sempre di più per assumere un ruolo politico superiore, coordinarsi con altri (lavoratori, organizzazioni popolari ecc.) per intervenire su tutte quelle emergenze che oggi il Covid-19 aggrava e alimenta (disoccupazione, isolamento, incuria del territorio, disfacimento della sanità pubblica, attacco ai diritti dei lavoratori, repressione ecc.) e farne ambito di denuncia, lotta, mobilitazione, organizzazione. Affermiamo che queste realtà devono diventare le “nuove autorità” di cui le masse popolari hanno bisogno.

Buona lettura.

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Ciao Andrea, presentati e raccontaci brevemente perché hai sentito la necessità di attivarti in prima persona per costruire un comitato di solidarietà, una brigata, che si occupasse di assistere le persone più colpite dall’emergenza sanitaria.

Ciao a tutte e a tutti, sono Andrea e vengo da Alghero, città sulla costa nordoccidentale della Sardegna di 44 mila abitanti.
Studio all’università di Sassari e a settembre mi trasferirò a Bologna per completare il percorso di laurea. Come molti giovani sardi, siciliani e meridionali ho avuto necessità di fare questa scelta per accedere ad un campo di studi che da noi è carente o poco adeguato, sintomo di un economia e di un settore pubblico sottosviluppato.
Ho militato a fasi alterne nel movimento contro l’occupazione militare della Sardegna e insieme ad altre persone gestisco uno spazio sociale nel centro storico di Alghero, all’interno di un progetto per la gestione autonoma e popolare degli spazi pubblici intesi come bene comune.
Sono per una Sardegna socialista e indipendente e credo che esperienze come queste siano importanti per raggiungere questo obiettivo a cui aspiro.
Quindi, insieme ad altre persone con cui avevo già fatto delle esperienze in ambito sociale o politico, a fronte dell’emergenza Covid-19 abbiamo pensato di organizzare un comitato solidale per aiutare chi si trova in difficoltà, nel pieno spirito solidaristico che ci ha sempre contraddistinto e ha animato la nostra attività nei nostri spazi autogestiti, inizialmente rivolto a chi non riuscisse ad avere la spesa garantita a casa.

Come siete partiti? Cioè, quali passi avete fatto per costituire la brigata? Avete raccolto l’esperienza di altri?

Nei primi giorni abbiamo agito senza saper bene come portare avanti l’idea. In prima battuta abbiamo tentato di coinvolgere le istituzioni, chiedendo loro come un gruppo di volontari potesse essere inquadrato in un’ azione di solidarietà. La risposta è stata veramente deludente: ci è stato consigliato di “lasciar fare” alle associazioni preposte per l’emergenza, quasi intimandocelo. A fronte della situazione emergenziale e della volontà di una serie di persone di darsi da fare per sostenere la comunità, credo che sia inaccettabile che il Comune si rifiuti di sostenere iniziative di questo tipo a fronte soprattutto della carenza di servizi dati da anni di tagli al settore pubblico. Allora per renderci utili abbiamo pensato comunque a delle modalità creative per attivarci e per non starcene con le mani in mano. In una situazione come questa tutti in qualche modo devono attivarsi!

Parlaci dell’attività che svolgete, come la state sviluppando.
Come dicevo prima, date le condizioni “imposte” dall’amministrazione locale, dovevamo organizzare la rete senza muoverci da casa. Abbiamo aggiunto persone interessate ad attivarsi su un gruppo WhatsApp e abbiamo creato una pagina Facebook che fungesse da piattaforma solidale. Durante la prima settimana abbiamo:
– rilanciato tutte le iniziative di aiuto alla popolazione sul territorio comunale di singole persone, negozi ed associazioni, pensandone anche noi di nuove ed utili come la fabbricazione a mano di mascherine, sostegno allo studio, ecc.;
– messo dei numeri online e diffusi per messaggio telefonico per funzionare come una sorta di centralino per le segnalazioni;
– promosso e ottenuto l’apertura di punti di raccolta della spesa solidale nei supermercati e abbiamo fatto aprire un centro di raccolta e smistamento all’interno di una onlus laica di pronto soccorso, posto in cui ora si possono donare alimenti che i volontari portano a chi lo richiede.
Dopo le prime settimane di attività, per rendere ancora più incisiva e auto organizzata l’azione, ad una compagna è venuta l’idea molto importante di coinvolgere i negozi di quartiere, esclusi dalla grande distribuzione, in una rete autonoma che non necessitasse di passaggi burocratici o di deleghe da parte delle autorità.
Questa rete nel giro di tre settimane è stata in grado di rappresentare un’alternativa al meccanismo della segnalazione ai servizi sociali o alle autorità, al modello dell’iscrizione ai registri delle associazioni caritatevoli o all’affidamento dei bisognosi ad un’associazione in particolare, sistema al momento indispensabile data l’emergenza ma frutto del vecchio sistema di assistenzialismo, ma superabile e soprattutto affiancabile già da ora con un tipo di organizzazione più diretta, gestita dai lavoratori dei negozi stessi e con la partecipazione attiva delle persone e soprattutto che dia una nuova centralità alla vita sociale ed economica nei quartieri in cui si vive. Insomma, abbiamo pensato di dare una risposta anche relativamente all’economia cittadina messa in ginocchio dalla crisi già da prima dell’emergenza Covid-19.
Al momento continuiamo con la distribuzione settimanale di viveri ad una decina di famiglie (più altre senza cadenza regolare) attraverso lo smistamento dal centro di raccolta all’interno del polisoccorso fatto aprire da noi e a cui noi forniamo alimenti; riceviamo in maniera diretta un paio di chiamate al giorno, grazie al contributo del GUS che si occupa di sostenere la popolazione straniera extracomunitaria; il grosso degli aiuti avviene tramite il sistema della spesa solidale dei negozi di quartiere, per cui chi è in difficoltà si reca direttamente nel negozio stesso e ottiene quello di cui ha necessità.
Al momento [l’intervista è rilasciata il 23.04, a tre settimane dall’avvio di questa esperienza] nel solo quartiere della “pietraia”, il mio quartiere, circa 300€ di spesa sono stati consegnati con questo sistema autogestito.
Per ora sono 20 i piccoli negozi, fuori dalla rete della grande distribuzione, che aderiscono all’iniziativa sul territorio di Alghero.
Solitamente chi ha bisogno lo viene a sapere tramite il passaparola attivato quartiere per quartiere, la pubblicità online o dai fogli con indicazioni che affiggiamo nelle zone popolari.
Quello in cui si può migliorare in questi casi è di rendere la rete comunicativa ancora più ampia e ricettiva, che faccia arrivare ad un numero maggiore di persone la notizia dell’esistenza dei nostri canali, in modo da ricevere più segnalazioni e coprire al meglio la domanda di aiuto che le associazioni preposte non possono riuscire a soddisfare da sole. Magari reclutando altre persone disposte a dare una mano. Ovviamente essendo gli spostamenti limitati ed essendo i social intasati da notizie e condivisioni paranoiche, questo è un compito non facile ma ci adopereremo per essere il più operativi possibile.

Lasciaci con delle tue riflessioni rispetto alla situazione attuale e le prospettive che anche il lavoro che state facendo ad Alghero può aprire.

Personalmente credo che la nostra esperienza insieme ad altre in Sardegna e in Italia suggerisca, come quella seguita dalle Brigate di Solidarietà di Quarto (NA) con cui mi sono messo in contatto per capire come si stavano organizzando e ottenere suggerimenti, che se l’azione di solidarietà viene lasciata solamente a chi è stato autorizzato dalle istituzioni o si occupa ”per antonomasia” di farla, specie in questo periodo, non raggiungerà mai gli obiettivi che si propone. Questo perchè presuppone che non ci sia coinvolgimento delle masse popolari, che non sia la comunità stessa ad occuparsi dei propri vicini e più in generale per mancanza di fondi, di mezzi e di operatori necessari per soddisfare da soli la ”domanda” complessiva di aiuti.
Alghero, città turistica, quest’anno vedrà l’aumento esponenziale della disoccupazione degli stagionali già precari per il lavoro, appunto, spesso irregolare. Questo, inserito nel contesto similcoloniale (in alcuni ambiti coloniale autenticamente) in cui la Sardegna si trova in rapporto all’Italia (di sottomissione al governo italiano e alla NATO delle istituzioni locali), non aiuta per niente un giovane o un lavoratore ad immaginarsi un futuro dignitoso nella nostra terra dopo l’emergenza.
Nel dibattito cittadino questo tema, che risulterà centrale tra pochi mesi, non è per niente trattato, così come quello dei lavoratori in nero ridotti alla fame e degli esercenti che chiudono i battenti senza misure di sostegno reali.
Il ruolo che può avere una piattaforma del genere è sicuramente quello di poter stimolare il dibattito e in prospettiva se dovesse allargarsi è una delle condizioni di partenza per cui gli abitanti dei quartieri possono promuovere un’agenda popolare di quello che serve alla città, forti della loro esperienza e coscienti dell’abbandono da parte della classe politica.
Quella della solidarietà è sicuramente un’ attività importante ma le istituzioni ne approfittano per far fare lavoro volontario alle stesse persone che dovrebbero in realtà essere retribuite per un lavoro dignitoso che è quello di occuparsi di chi si trova in difficoltà, portando, chi come noi si rende conto della situazione, a dover a sua volta fare dell’ulteriore volontariato per sopperire alle mancanze del sistema ”ufficiale”, rischiando magari la multa o anche peggio a seconda dell’interpretazione poliziesca delle disposizioni.
Questo mentre da parte delle istituzioni, localmente o dal governo centrale, non viene messo in discussione neanche uno degli elementi per cui questa situazione è risultata catastrofica : la mancanza di un piano del lavoro, la sanità pubblica ridotta all’osso, un sistema assistenzialista e di elemosine contro politiche di reddito più ampie, ancor di più durante la quarantena.
E’ assente soprattutto un vero dibattito sull’urgenza di appianare le differenze sociali (di classe), acutizzatesi durante l’emergenza. Questo modo di concepire le cose è funzionale ad una gestione della crisi che non riveli la natura dell’ordine capitalista (“andrà tutto bene”, “siamo tutti sulla stessa barca” e le donazioni di facciata dei ricconi italiani sono specchietti per le allodole!), che con lo smantellamento della sanità pubblica e l’attacco ai diritti dei lavoratori, è il concorrente primario alla crisi dopo l’epidemia virale stessa.

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