“Nel frattempo (1964-1968), esauritosi il boom economico, le fabbriche cominciarono ad andare in crisi e la soluzione padronale era la solita: chiuderle. Per cui l’unica alternativa era l’assemblea permanente; infatti, dato che il sistema degli ammortizzatori sociali allora era quasi inesistente, prese piede in maniera consistente negli anni Settanta. Gli operai di fatto non permettevano che l’azienda chiudesse e qualcuno continuava a produrre nonostante i distacchi degli allacci. Piano piano fu individuato che il problema non era il singolo imprenditore incapace, perché le aziende venivano chiuse una dietro l’altra: c’era un problema di sistema. […] Spesso, “dall’alto”, ci veniva detto che come CdF e coordinamento facevamo azioni giuste, ma eravamo avventuristi perché non sapevamo dove volevamo andare a parare. Noi invece lo avevamo chiaro, eccome! L’obiettivo era il cambiamento della società, imporre un governo che andava al di là dei partiti e partitini e dei loro accrocchi. Avevamo in mente un’altra struttura di Stato, che poi doveva usare qualsiasi mezzo disponibile per rimanere al potere”.
Roberto Rugi, membro del Consiglio di Fabbrica della Sbisà (FI),
intervista contenuta in “I consigli di fabbrica degli anni ’70”, Edizioni Rapporti Sociali.
Pubblichiamo un approfondimento sui Consigli di Fabbrica (CdF) degli anni ’70 – esperienza che abbiamo raccolto in una serie di interviste I consigli di fabbrica degli anni ’70 – perchè rappresenta un contributo utile per tutti gli operai e i lavoratori che oggi hanno necessità di raccogliere quel testimone e trovare una strada per la riscossa della classe operaia; una strada per costruire il potere della classe operaia.
Quell’esperienza offre molti insegnamenti che dobbiamo fare nostri. Per prima cosa ci mostra il ruolo che devono assumere oggi i collettivi e i comitati di operai e lavoratori per arrivare a costruire quella nuova governabilità di cui parla Roberto Rugi. Non solo organismi di lotta, ma organismi che devono formare una rete in grado di gestire capillarmente aziende e società; in grado di imporsi rovesciando i rapporti di forza. Questa è l’unica via anche per consolidare ogni conquista. L’esperienza dei CdF si è conclusa senza che gli operai e i lavoratori togliessero ai capitalisti e ai loro governi la direzione delle aziende e del paese ed oggi vediamo i padroni togliere pezzo pezzo tutto ciò che avevano conquistato.
Da quella esperienza dobbiamo imparare che è possibile e necessario andare oltre, andare fino in fondo. La loro storia dice che organismi simili possono nascere in ogni contesto e tipo di azienda, che possono nascere dall’assenza di diritti (che anzi è una leva per la loro creazione), che basta anche solo un operaio deciso e ben organizzato per farli nascere e che l’esempio anche di un solo CdF alimenta la creazione di altri.
Ma l’insegnamento principale dobbiamo coglierlo proprio dall’esaurimento di quella esperienza: è infatti la conferma che per passare dalle lotte di resistenza a un movimento rivoluzionario, per risolvere i problemi che incontrano avanzando, le masse popolari hanno bisogno di avere alla loro testa un partito comunista. Non è necessario un partito comunista già “grande e forte”, ma prima di tutto all’altezza del suo compito storico di dirigere le masse popolari a instaurare il socialismo. Solo in questo modo può diventare “grande e forte”. Questa è una lezione che emerge ad esempio in ogni intervista che abbiamo raccolto nel libro. Sono tante le riflessioni degli operai in proposito; per citarne alcune: “mancava un programma ben delineato e una strategia e soprattutto l’appoggio di un partito comunista che spingesse in avanti; infatti, il vecchio PCI tendeva più a contenerli”, “mancava la direzione politica, mancava il Partito e il sindacato remava contro”, “ci ritenevamo comunisti ma da lì a discutere di comunismo o di rovesciare il sistema ce ne passa”, “forse si aveva paura di fare il balzo in più”, “il PCI, partito riconosciuto dalla grande maggioranza degli operai, aveva preso una deriva istituzionale”.
Per i comunisti oggi dirigere gli operai e i lavoratori a costruire un movimento rivoluzionario significa innanzitutto lavorare per estendere e moltiplicare i collettivi come quello della GKN, che devono diventare l’ossatura della società. Significa dirigerli a convergere su un obiettivo comune che deve riguardare il governo del paese. Portarli a farsi classe dirigente imponendo un nuovo tipo di governabilità a partire dai rapporti di forza che creano; un governo d’emergenza popolare che faccia quello che loro dicono che è necessario fare, che attui le leggi che loro scrivono.
Le molte esperienze dei CdF mostrano chiaramente che ad alimentare la creazione di organismi operai concorrono la propaganda dei comunisti fuori dai cancelli e il sostegno di organismi operai con già una certa esperienza o in alcuni casi anche solo il loro esempio (e farlo conoscere è uno dei compiti della propaganda dei comunisti).
Buona lettura!
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I CdF degli anni ‘70: storia e insegnamenti
I CdF negli anni ’70
I CdF sono organismi di rappresentanza diretta degli operai, sorti nell’ambito della lunga stagione di lotte che – dall’autunno del 1969 – portò la classe operaia e le masse popolari a strappare alla borghesia le tutele, i diritti e le conquiste di civiltà e benessere che la classe dominante ancora oggi non ha finito di cancellare.
Una delle conquiste più importanti di quel sommovimento radicale e profondo che durò fino all’inizio degli anni ottanta fu proprio l’affermazione dei Consigli di Fabbrica (CdF) su scala sempre più estesa.
Nel 1968, per iniziativa spontanea dei lavoratori, nascono i CdF come organismi di rappresentanza diretta: pur non chiamandosi CdF, il primo esempio è stato il Comitato Unitario di Base della Pirelli Bicocca di Milano, sorto nell’ambito della lotta per il contratto aziendale e in contrasto con la linea seguita dai sindacati confederali. Tra il ’68 e il ’69 i CdF si sono estesi alle principali aziende del paese e nel ’69 hanno preso in mano la lotta per i rinnovi contrattuali (Autunno Caldo).
Nel 1972, con il patto federativo del 31 luglio tra Cgil, Cisl e Uil, sono stati riconosciuti come organismi di rappresentanza unitaria dei sindacati confederali (in sostituzione delle Commissioni interne), con potere di contrattazione all’interno dei posti di lavoro.
Nel 1991, con l’intesa-quadro interconfederale (CGIL-CISL-UIL) del 1º marzo, i consigli di fabbrica sono stati sostituiti dalle rappresentanze sindacali unitarie.
Il CdF era composto dai rappresentanti dei lavoratori, i delegati, i quali venivano eletti da gruppi omogenei di lavoratori (reparto, ufficio, ecc.) su scheda bianca e non su lista sindacale, come accadeva in passato per la commissione interna. Qualunque lavoratore, anche non iscritto al sindacato, poteva quindi essere eletto delegato di gruppo omogeneo nel consiglio di fabbrica. Il delegato poteva essere revocato in qualsiasi momento su richiesta dei lavoratori che lo avevano eletto (prima della scadenza del suo mandato elettorale, che durava generalmente due anni). Non aveva alcuna importanza la tessera sindacale, ogni delegato era eletto perché godeva della fiducia e del riconoscimento dei suoi compagni.
Il CdF era il riferimento per tutto: gestione delle ferie, dei permessi, delle malattie lunghe, dei cambi di reparto, dei passaggi di livello, ecc.
Faceva riunioni ordinarie, in cui venivano affrontati i temi della gestione e del controllo operaio sulla fabbrica, e riunioni straordinarie quando particolari necessità lo richiedevano. Le decisioni venivano sottoposte per l’approvazione alle assemblee di reparto, per questioni attinenti al reparto, o all’assemblea generale.
Il funzionamento dei CdF era grossomodo lo stesso per ogni azienda. Se pensiamo a una struttura basata su un delegato eletto ad esempio ogni 30 operai, con centinaia di delegati nelle grande aziende, e moltiplichiamo il funzionamento di un CdF per il numero di fabbriche di un territorio, di una provincia e di una regione, abbiamo un’idea di come e quanto l’organizzazione della classe operaia fosse influente nel movimento di tutto il resto delle masse popolari. Per fare solo un esempio, a Milano per i funerali di Fausto e Iaio nel 1978, i CdF proclamarono lo sciopero e scesero nelle strade 200 mila persone.
A Milano inoltre (ma lo stesso valeva per le grosse città) esisteva l’attivo territoriale dei delegati della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici – sindacato unitario di Fiom-Fim-Uilm), uno per ognuna delle zone. Agli attivi – circa due al mese – vanno aggiunti gli attivi delle organizzazioni sindacali, le riunioni degli iscritti ai sindacati, i coordinamenti con il movimento, le riunioni che ogni operaio faceva con il suo partito o organizzazione di riferimento… era una enorme e capillare rete di attività politica che dalle fabbriche si riversava nel resto della società.
Contesto nazionale e internazionale
Una serie di eventi della seconda metà degli anni ‘60 anticipano il ciclo di lotte del ’68-’69:
– la fase di ripresa ed espansione del sistema capitalista, avvenuta a seguito delle immani distruzioni della Seconda guerra mondiale, produceva grandi profitti per i capitalisti (il famoso “boom economico” degli anni ‘60) a costo di grandi sacrifici per i lavoratori (sfruttamento senza regole dei lavoratori, migrazione di massa di proletari dal Sud al Nord del paese). La linea revisionista intrapresa dal PCI e la linea collaborazionista della CGIL avevano dato ai padroni e agli altri capitalisti un potere incontrastato dentro e fuori le fabbriche. La situazione aveva determinato un fermento nelle fabbriche e nella società. Il regime in fabbrica era basato su un rapporto sostanzialmente autoritario e in generale c’erano una rigida disciplina e ritmi pesanti che venivano imposti dai padroni, con il tacito consenso dei sindacati. Nonostante la ripresa delle mobilitazioni sindacali dell’inizio degli anni ‘60, le condizioni concrete per i lavoratori non erano mutate di molto rispetto agli anni ‘50;
– verso la fine degli anni ‘60 iniziano i primi segnali della nuova crisi del capitalismo: alcuni settori entrano in crisi, gli affari non vanno più tanto bene e i padroni ricorrono ai soliti strumenti per far fronte al calo dei profitti: licenziamenti, aumento dei ritmi, ristrutturazioni, ridimensionamento e chiusura di aziende;
– gli avvenimenti mondiali di quegli anni (la guerra in Vietnam, l’assassinio di Che Guevara, l’uccisione di Malcolm X e Martin L. King, il colpo di Stato in Grecia, l’invasione dei territori della Palestina da parte dei sionisti) hanno avuto una forte ripercussione sulla coscienza di studenti e operai;
– gli anni ‘60 sono stati anche gli anni in cui prese vigore la lotta spontanea, istintiva e diffusa contro la linea revisionista del PCI promossa da Togliatti. Una lotta che fece un salto di qualità verso la metà degli anni ‘60, con la battaglia lanciata a livello internazionale da Mao Tse-tung e dal Partito comunista cinese contro il revisionismo moderno di Krusciov e Togliatti (Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi del PCC è del dicembre 1962) e con l’impulso che arrivava dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria in corso in Cina (1966-76). In quegli anni a sinistra del PCI si formano i primi gruppi del movimento marxista-leninista, il gruppo de il manifesto e gruppi “operaisti” (Avanguardia Operaia, Potere Operaio, ecc.).
I CdF e l’Autunno caldo del ‘69
L’Autunno caldo segnò nelle aziende capitaliste la fine della stagione iniziata nel 1948 (soffocamento della Resistenza, Commissioni Interne votate sotto ricatto, licenziamenti discriminatori, reparti confino, ecc.) e che il luglio ’60 aveva solo incrinato. Coincise con lo sviluppo della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria del popolo cinese (1966-1976) e aprì una lunga stagione di lotte con cui la classe operaia e le masse popolari riuscirono a strappare alla borghesia le tutele, i diritti e le conquiste di civiltà e benessere che la classe dominante ancora oggi non ha finito di cancellare.
La forza del movimento operaio dentro le fabbriche ha influito molto su ogni conquista degli anni Settanta: i diritti civili, il diritto di famiglia, l’aborto, il divorzio, ecc., tutto è frutto delle lotte operaie di quegli anni. Ma anche sulla lotta antifascista, antimperialista, contro le leggi liberticide, contro la repressione, contro la strategia della tensione, per la parità di genere, per il diritto al lavoro, alla casa, alla salute, allo studio, contro l’aumento dei prezzi dei servizi e dei beni di prima necessità, ecc.
Le avvisaglie dell’autunno caldo ci sono nelle lotte dell’estate 1960 contro il governo Tambroni e quelle di Piazza Statuto a Torino nel 1962.
Gli scioperi e le manifestazioni del ‘68-‘69 non furono un’esplosione improvvisa di collera.
Già nel 1967 e nei primi mesi del ‘68 c’erano state lotte rivendicative con scioperi in diverse fabbriche (Fiat, Olivetti, Innocenti, Falck, Italsider, Dalmine, Zoppas, Indesit, Petrolchimico di Marghera, per citare le più importanti). Le questioni per cui gli operai lottavano andavano dai salari ai ritmi, agli organici, ai lavori nocivi, alla mensa. Bisogna tener conto che venivano da una stagione di accordi al ribasso (contratti degli anni ‘61-‘63), che avevano fatto perdere fiducia nel sindacato. Al centro della lotta viene messo l’egualitarismo (aumenti uguali per tutti, diritti sindacali per tutti, elezione dal basso dei rappresentati sindacali). Era una rivendicazione difficile da far passare nella cultura sindacale dell’epoca impersonata dal PCI revisionista e dalla CGIL collaborazionista. L’egualitarismo era concepito per rompere il sistema disciplinare e premiale nelle mani dei padroni, per togliere ai cosiddetti “capi e capetti” le varie forme di ricatto e divisione e per scardinare l’esile potere esercitato dalle Commissioni Interne (strutture sindacali elette su designazione dei sindacati).
Nel 1967 persino alcune settori delle “aristocrazie operaie” (come venivano definiti gli operai altamente specializzati e i tecnici) dell’Olivetti e della Snam si mobilitano contro la gestione delle burocrazie sindacali, mettendo in discussione l’organizzazione sociale del lavoro e l’uso che veniva fatto delle macchine nel processo di sfruttamento degli operai. In pochi mesi si scatenarono scioperi spontanei in centinaia di aziende: questo aprì una contraddizione profonda tra gli operai che spingevano e i vertici sindacali che “frenavano” sentendosi vincolati agli accordi firmati nel ‘62 con la Confindustria, che sostanzialmente erano degli accordi di contenimento salariale.
Nell’autunno del ‘69, quando ebbe inizio la lotta per il rinnovo contrattuale (che coinvolgeva non solo i metalmeccanici, ma un totale di 7 milioni di lavoratori), il sindacato era ormai costretto ad accogliere tutte le spinte che venivano dalla base operaia. Inizialmente la piattaforma contrattuale preparata dalle confederazioni sindacali nella proposta di aumenti salariali non contemplava un criterio egualitario che invece era fortemente richiesto dagli operai. Ma quando nella consultazione operaia del luglio del ‘69, preparatoria alla stesura della piattaforma, la linea egualitaria ebbe un sostegno plebiscitario da parte degli operai, il sindacato la introdusse nella proposta di contratto.
La piattaforma, approvata da 300 mila lavoratori, prevedeva tra le altre cose: aumenti salariali consistenti uguali per tutti, riduzione dell’orario a 40 ore settimanali e aumento dei giorni di ferie, parità normativa operai-impiegati, diritti sindacali in fabbrica (riconoscimento dei delegati con un monte ore a disposizione, assemblea retribuita, diritto dei delegati di rivedere i provvedimenti disciplinari).
I CdF avevano ormai preso in mano la vertenza. Nelle Confederazioni sindacali si era aperto uno scontro tra un’area conservatrice, non disponibile a riconoscere i delegati, e un’area di “rinnovatori”, sensibili alle pressioni che provenivano dal basso e orientati a compiere una svolta che prevedesse un riconoscimento dei CdF, affidando loro il diritto di gestire le relazioni con i padroni a livello aziendale. Al congresso della CGIL del giugno ‘69 vinsero questi ultimi. I sindacati si riservavano però il diritto di gestire le trattative di carattere generale, opponendosi strenuamente ad ogni tentativo di coordinamento dei CdF a livello territoriale e nazionale. Però per non perdere il controllo della situazione i vertici si adeguavano, non solo permettendo alle lotte di svilupparsi, ma in certi casi contribuendo a far avanzare il livello rivendicativo delle situazioni più arretrate. Uno dei casi più eclatanti di svolta a 180 gradi della linea del sindacato fu quello della FIM-CISL, particolarmente a Milano e Torino con Tiboni alla testa, che scavalcò a sinistra la CGIL, accogliendo nelle sue file operai e delegati di Lotta Continua, Avanguardia Operaia e mettendosi in prima fila nella lotta per il contratto.
Dopo numerosi scioperi generali e la mobilitazione di milioni di lavoratori vennero firmati 81 contratti di lavoro (di cui 46 nell’industria e 30 nei servizi) dal carattere molto avanzato. La borghesia, e in particolar modo il governo, terrorizzati dall’idea di perdere tutto, fecero concessioni rilevanti. Quello dei metalmeccanici fu l’ultimo, venne firmato il 21 dicembre del ’69 e prevedeva:
– un aumento salariale di 65 lire l’ora uguali per tutti gli operai (il salario mensile dei più era dell’ordine delle 100.000 lire, quindi un aumento del 10%);
– nuovi diritti sindacali sul controllo del processo produttivo;
– il riconoscimento definitivo del delegato di reparto e dell’assemblea dei delegati;
– la riduzione d’orario a 40 ore settimanali;
– limitazioni all’uso dello straordinario;
– parità del trattamento infortunistico e di malattia tra operai e impiegati;
– un giorno di ferie in più;
– diritto di assemblea nelle fabbriche con più di 15 dipendenti (10 ore retribuite all’anno);
– 8 ore di permesso retribuite al mese per i delegati.
I padroni hanno paura e ricorrono alla “strategia del tensione”
Le violenze della polizia e l’ampiezza incontrollabile delle manifestazioni operaie avevano scosso governo e borghesia e costretto il sindacato e il PCI a tentare di cavalcare il dissenso operaio proponendo, tra l’altro, il disarmo della polizia in servizio di ordine pubblico e la delega ai sindaci del compito di garantire l’ordine pubblico. Posizione questa che aveva creato forte inquietudine nel sistema di potere dei vertici della Repubblica Pontificia e nei suoi apparati di sicurezza, che diedero il via alle operazioni di quella che sarà poi chiamata “strategia della tensione”.
La borghesia per far fronte alla mobilitazione diffusa degli operai che “vogliono prendere tutto” ricorre alla strategia della tensione. La strage del 12 dicembre 1969 a piazza Fontana (MI), preceduta da azioni come la bomba inesplosa rinvenuta il 30 agosto 1968 al sesto piano dei magazzini Rinascente di Milano, diventò il simbolo della “strategia della tensione” che accompagnerà tutti gli anni ‘70. Le responsabilità dei fascisti e dell’apparato dello Stato furono quasi subito note e accertate (anche se nessuno dei responsabili ha ancora pagato). La borghesia e i suoi apparati però avevano immediatamente additato come responsabili gli anarchici e gli estremisti di sinistra in generale. Per seminare panico e terrore il 16 dicembre avevano gettato dalla finestra della Questura di Milano l’anarchico Giuseppe Pinelli e propagandato il fatto come suicidio, quindi come ammissione di responsabilità nella strage di piazza Fontana. In questo clima di “emergenza”, il governo, i padroni e i sindacati il 21 dicembre firmarono il contratto dei metalmeccanici. Da quel momento il livello dello scontro di classe si innalzerà in tutto il paese.
Un approfondimento: CdF degli anni 70, CLN nella Resistenza, CdF del Biennio Rosso in Italia e soviet in Russia
Nel nostro paese organismi operai si sono formati negli anni 70, ma anche durante la Resistenza e nel Biennio Rosso: nel Biennio Rosso su ispirazione dei soviet in Russia. In Russia i soviet sono diventati la base di un nuovo sistema di potere, quello socialista, in Italia e negli altri paesi imperialisti no: come mai? La differenza l’ha fatta il diverso orientamento e linea seguita dal Partito Comunista.
I CLN di azienda nel periodo della Resistenza contro il nazifascismo (1943-1945).
In quel caso il PCI:
1. non radicò i CLN nelle aziende, nei municipi, nelle questure e prefetture e nel resto delle istituzioni statali, rendendole organismi del nuovo potere delle masse popolari organizzate;
2. non arruolò nelle aziende dirette dai CLN tutti gli operai e i disoccupati impiegandoli nella ricostruzione post-bellica, favorendone la mobilitazione e il controllo della produzione.
Il PCI relegò i CLN a organi della collaborazione tra operai e padroni nella ricostruzione postbellica (come se gli interessi degli operai e dei capitalisti potessero stare assieme!) svuotandoli in questo modo di contenuto e di forza. Il PCI subordinò la sua azione politica a forza nel teatrino della politica borghese.
I CdF nel Biennio Rosso (1919-1920), nati su spinta della vittoria della rivoluzione russa culminata nella vittoria dell’Ottobre del 1917 e su esempio dei soviet.
In quel caso la borghesia riuscì a sovrastare e schiacciare la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari tramite la mobilitazione reazionaria di queste, il Fascismo, e ciò fu dovuto alla (e manifestazione della) incapacità rivoluzionaria del PSI.
I soviet in Russia.
Inizialmente i soviet in Russia erano organizzazioni di lotta (combinavano rivendicazioni, denunce, proteste e rivolte). Il loro ruolo cambiò progressivamente man mano che il partito comunista bolscevico assumeva la direzione della mobilitazione popolare. Nei soviet non c’erano solo comunisti, anzi per tutta una fase la maggioranza dei componenti erano affiliati o comunque legati, direttamente o idealmente, ideologicamente, ai menscevichi, ai socialisti rivoluzionari, agli anarchici e molti erano i senza partito. La funzione rivoluzionaria dei soviet, cioè il ruolo di consigli rivoluzionari, di centri locali del nuovo potere, si incarnò grazie alla politica rivoluzionaria del partito comunista che li concepiva come la nuova struttura del potere politico attraverso cui il proletariato esercitava la sua direzione.
Solo organismi di lotta degli operai per migliorare le loro condizioni o anche, e in prospettiva soprattutto, organismi per emanciparsi dai capitalisti, quindi organismi che sono la base di un nuovo sistema di potere, di un nuovo regime politico?
Ogni regime politico ha una base di classe, esprime gli interessi e la volontà di una classe che ha nella costituzione materiale della società un ruolo tale da muovere tutto il resto. Nella società moderna solo due classi possono muovere il resto della società, comandare, stante il loro ruolo nella costituzione materiale della società: la borghesia e il proletariato. La borghesia perché “dà lavoro” e compera uomini, il proletariato perché produce, ha in mano la fonte principale della ricchezza sociale nelle società moderne, le fabbriche.
Tra tutte le classi di lavoratori che la società borghese ha al suo interno, il proletariato e in particolare la classe operaia è l’unica classe che può costituire la base di classe di un regime politico che dirige la trasformazione socialista della società. Tra tutte le classi di lavoratori, la classe operaia è quella che è contrapposta al capitale a cui vende la sua capacità lavorativa (a differenza del resto del proletariato), fa parte delle forze produttive più avanzate e collettive (a differenza dei produttori autonomi di merci), ha già acquisito nella società borghese esperienza di lotta collettiva e di organizzazione (a differenza di tutti i lavoratori singoli ed autonomi), è la classe la cui emancipazione come classe non può realizzarsi in altro modo che col superamento del rapporto di capitale (a differenza che per i lavoratori autonomi e i lavoratori piccolo-borghesi). Queste sue caratteristiche la predestinano alla direzione del processo di transizione dal capitalismo al comunismo: questo o avviene con la direzione della classe operaia o non avviene.
L’esperienza del movimento della massa dei lavoratori nella fase imperialista mostra che esso, man mano cresce e progredisce verso il successo, trova sempre i suoi centri di organizzazione, di direzione, di unificazione e di generalizzazione nelle organizzazioni del proletariato e in particolare nelle organizzazioni della classe operaia. Nei paesi imperialisti ogni volta che si è sviluppato un movimento di massa di una qualche ampiezza ed importanza, come da ultimo negli anni ’70, abbiamo visto sia che strati popolari più diversi via via venivano coinvolti nel movimento ed entravano a farne parte, sia che tutto il movimento più si estendeva più trovava i suoi punti di riferimento negli organismi operai. In Italia i Consigli di Fabbrica assunsero in ogni città, e in ogni zona del paese in cui erano presenti fabbriche, un ruolo di direzione, un prestigio e un potere che andava ben al di là di quello che i suoi membri nel complesso riuscivano a concepire e volevano esercitare.
I Consigli di Fabbrica, man mano che il movimento cresceva, tendevano ad intervenire in ogni campo, ad elaborare e fare proprie rivendicazioni di altri strati di lavoratori, a organizzarne e sostenerne le lotte, a far proprie rivendicazioni che non riguardavano direttamente il rapporto di lavoro, ad esercitare egemonia, orientamento e direzione sul complesso delle masse lavoratrici e delle corrispondenti famiglie.
Le scuole e le università, che furono per importanza il secondo centro di organizzazione e irradiazione del movimento, guardavano anch’esse alle fabbriche i cui organismi riuscivano ad avere un’influenza e una continuità ben più vasta degli organismi studenteschi.
Più il movimento diventava maturo, più cresceva la coalizione di esso attorno al proletariato delle grandi concentrazioni operaie e agli organismi di queste.
La concentrazione del potere politico nelle mani del proletariato e delle sue organizzazioni (dittatura del proletariato), è il passaggio necessario di ogni movimento di massa che cresce fino alla conquista del potere e avvia l’instaurazione del socialismo.
Conclusioni
La conquista del potere, cioè gli organismi operai che diventano base di una nuova struttura di potere, è il passaggio per consolidare ed estendere anche quello che gli organismi operai conquistano in termini di miglioramento delle condizioni di vita.
Il movimento dei CdF ha strappato alla borghesia grandi conquiste in termini di tutele e diritti dei lavoratori, di civiltà e benessere per le masse popolari tutte, ma si è concluso senza togliere ai capitalisti e ai loro governi la direzione delle aziende e del paese. A causa di questo all’Autunno Caldo con l’epilogo della Lotta Armata succedettero la “svolta dell’EUR” (febbraio 1978), la “marcia dei quarantamila” con la rivalsa di Agnelli (1980), il divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro (marzo 1981) con il decollo del Debito Pubblico ancora oggi cappio al collo del nostro paese con il quale ogni governo borghese deve fare i conti, la cappa reazionaria UE e NATO con i governi prima CAF e poi Larghe Intese nella quale con il voto del 4 marzo 2018 le masse popolari hanno aperto una breccia. Ovviamente questo corso delle cose nel nostro paese avvenne nel contesto di un preciso corso delle cose a livello internazionale, al quale contribuì e dal quale fu alimentato: la sconfitta della Rivoluzione Culturale Proletaria promossa da Mao Tse-tung nella Repubblica Popolare Cinese (1966-1976), il declino dell’Unione Sovietica dal 1964 saldamente nelle mani dei revisionisti moderni con il gruppo di Breznev, l’esaurimento nel mondo della prima ondata della rivoluzione proletaria e la ripresa in mano da parte della borghesia imperialista (con Margaret Thatcher e Ronald Reagan) del dominio del mondo.
I padroni ci stanno riportando indietro, ci stanno togliendo un pezzo alla volta quello che i CdF avevano conquistato con le lotte degli anni ’60 e ’70, sulla scia della vittoria della Resistenza e dell’ondata messa in moto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Denuncia? Lamento? No, anzi proprio l’esperienza dei CdF insegna che ieri come oggi anche un solo operaio avanzato, anche un solo operaio comunista può ribaltare la situazione, se si organizza per farlo con una linea giusta e con un’azione sistematica. Quindi bando alla rassegnazione. E bando anche a chi scassa i maroni che la classe operaia non può più avere un ruolo di traino perché non ha più diritti, perché non c’è più l’art. 18 e i CCNL sono svuotati, perché i padroni fanno pesare il ricatto del posto di lavoro, perché è precarizzata e frammentata.
Possiamo risalire la china, così come negli anni ’70 è avvenuto in tante fabbriche e nel resto del paese, fino a rovesciare i rapporti di forza. L’esperienza dei CdF degli anni 70 e la storia successiva insegnano che non bisogna lasciare le cose a metà, ma andare fino in fondo: abbiamo visto che finché i capitalisti sono padroni delle aziende, la vita dei lavoratori dipende dai loro affari. Abbiamo toccato con mano che “la libera iniziativa economica privata” non sta insieme con “l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana”… o l’una o l’altra.
10, 100, 1000 CdF: non per tornare al passato, ma per conquistare il futuro, un futuro di civiltà e di benessere, un futuro che si chiama socialismo.
10, 100, 1000 CdF che, come dice il CdF della GKN, “diventano nuova classe dirigente”!