Pubblichiamo l’intervista rilasciata da un operaio iscritto Cobas di TIM, colosso delle telecomunicazioni, oggi immerso in un processo di smantellamento che non lascia all’immaginazione quale sarà il futuro dei lavoratori se non saranno questi a prende in mano la situazione.
Il destino che i padroni vogliono imporre ai lavoratori di TIM infatti – forti dell’esperienza degli operai della GKN di Campi Bisenzio (Fi) – può e deve essere invertito grazie all’organizzazione e all’unità degli operai.
Dall’intervista emerge chiaramente come il governo Draghi e la classe dirigente che rappresenta non abbiano alcuna intenzione di mettere in campo misure volte alla salvaguardia dei posti di lavoro, tantomeno di un servizio che è sempre meno alla portata di tutti. Emerge invece come proprio i lavoratori di TIM siano in grado di elaborare una soluzione positiva per mantenere i livelli occupazionali, migliorarne le condizioni di lavoro e fornire un servizio migliore di quanto non siano stati in grado di fare fino ad oggi i padroni.
Oggi la classe operaia ha la forza di fermare le scorrerie dei padroni cominciando ad organizzarsi all’interno del proprio posto di lavoro, trasformando le tessere sindacali in strumenti di lotta e coordinamento con le altre realtà operaie organizzate per costruire rapporti di forza capaci di rovesciare il governo Draghi e imporre un governo di emergenza popolare. Un governo che deve essere composto da personaggi di fiducia dei lavoratori e del resto delle masse popolari e che attui ogni misura necessaria a garantire una riorganizzazione del lavoro necessaria a produrre quanto serve alla società e non funzionale al profitto di pochi.
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1. TIM è un altro dei pilastri dell’economia nazionale, nonché gestore di dati sensibili di rilevanza non solo nazionale e di cui è in corso la dismissione anche se ne sente parlare ben poco sui principali media: ci fai un breve punto della situazione?
La situazione è che il 2 marzo scorso l’AD Labriola ha presentato le linee guida di un piano industriale che – se andrà in porto – prevederà la divisione dell’azienda in 4 linee o divisioni produttive. Di queste una è già esistente ed è TIM BRASIL, le altre sono segmenti di mercato e la società della rete.
Il prossimo 7 luglio il piano industriale verrà comunicato nel dettaglio alla comunità finanziaria e si conosceranno i particolari, comprese le confluenze di personale in queste 3 divisioni. Nel frattempo prosegue la discussione sulla costituzione della società unica della rete, che dovrebbe essere oggetto di una operazione di confluenza con OPEN FIBER.
L’idea generale del Management è quella di abbattere i costi generali, diminuire il debito e ridurre il costo del lavoro. Andare inoltre verso la dismissione della rete fissa e concentrare le proprie attività sulla vendita di prodotti e servizi compresa la connettività o servizi cloud.
In questo senso lo scorporo della rete e l’operazione verso la costituzione di una società unica della rete è legata alla necessità di vendere un pezzo di azienda ad una cifra stimata intorno a 12 miliardi, a CDP (Cassa Depositi e Prestiti) e al fondo Macquarie che sono gli azionisti di maggioranza di OPEN FIBER e KKR, un fondo americano che è già presente in una azienda del gruppo TIM (FIBER COP) e che gestisce le attività e i progetti legati alla cosiddetta rete di distribuzione o ultimo miglio. La vendita permetterebbe di ridurre il debito di 12 miliardi ed avere un gruppo più snello.
2. Quali sono i principali interessi in ballo e i gruppi economici e politici in lotta per accaparrarseli, secondo voi?
Gli interessi per ora sono quelli legati al Gruppo Vivendì (francese) azionista di maggioranza. CDP in TIM per ora è il secondo azionista con il 9,6 % e ha la necessità di recuperare quanto speso con l’ingresso in TIM, circa 1 euro ad Azione.
Le azioni attualmente sono al minimo storico con enormi perdite. In ballo ci sono anche i miliardi arrivati dall’Europa per il PNRR e dedicati alla digitalizzazione del Paese. Si tratta di progetti legati a ridurre il GAP tecnologico nelle cosiddette aree grigie o bianche (o a fallimento di mercato). Progetti che devono esaurirsi entro il 2026.
In questo quadro stiamo quindi parlando di un’azione da parte di CDP che va nella direzione di sostenere gli interessi dei fondi privati a discapito di una azienda che invece potrebbe da subito tornare sotto il controllo pubblico senza necessariamente sbarrare la strada ai fondi privati, ma ridimensionandoli e garantendosi così il controllo totale di un asset strategico e semplificando anche la gestione delle reti di TLC nel nostro paese.
3. Come siete organizzati fra lavoratori in un gruppo che ha distribuzione nazionale: esistono coordinamenti, comitati cittadini/regionali, c’è un confronto ordinario fra di voi?
I COBAS sono presenti in 6 Regioni con diversi delegati/e RSU e sono parte integrante del Coordinamento Nazionale RSU che è il soggetto delle trattative insieme alle segreterie nazionali di CGIL-CISL-UIL-UGL di settore. Siamo una minoranza – 2 delegati su 69 – ma comunque attivi nelle trattative e negli incontri nazionali. In passato abbiamo anche costituito un asse con tutti i sindacati autonomi dell’azienda con i quali arriviamo a circa il 12%. In questa situazione purtroppo dobbiamo registrare l’assenza di un percorso comune avendo queste organizzazioni non rilevato il pericolo cui stiamo andando incontro.
4. In questi mesi la vostra strada si è incrociata più volte con quella degli operai della GKN di Firenze, quali insegnamenti avete tratto dalla loro battaglia, dai confronti che avete avuto più volte con loro?
L’esperienza della GKN che lancia l’idea dell’esser classe dirigente ci interessa.
Già nel 2013 quando dopo l’ennesimo accordo sulla riduzione del costo del lavoro, entrò in azienda la compagnia TELEFONICA, stufi di dover solamente contestare le scelte di CGIL-CILS-UIL-UGL e TIM cominciammo ad immaginare un progetto di come avremmo voluto fosse il nostro lavoro e la nostra azienda. Li nacque la campagna Telecom Italia unica e pubblica.
Rilevammo semplicemente che l’Italia era uno dei pochi paesi al mondo in cui l’azienda leader delle TELCO fosse privata e che era possibile un investimento serio e poco costoso per tornare a controllare questa azienda. Negli anni successivi poi, CDP entrò nel capitale arrivando fino al 9,6 % e dimostrando che l’operazione era possibile. Già nel 2013 l’allora AD aveva provato a vendere la rete di TIM allo Stato chiedendo 9 miliardi di Euro.
L’operazione di CDP nel 2018/19 costò molto meno. Oggi LABRIOLA propone un piano simile a quello del 2013 sperando di accollare i costi di una parte di rete allo stato o ad altri soggetti finanziari. Essere classe dirigente significa che sta a noi dettare l’agenda politica. È uno sforzo che deve essere svolto per uscire dalle sconfitte inevitabili che si celano dietro le singole vertenze. Si tratta di mettere in piedi un processo che cambi il paradigma
5. Quali valutazioni date del governo Draghi e delle forze politiche che lo sostengono rispetto alla vostra vertenza, visto che diverse di queste si riempiono spesso la bocca di parole su eccellenze produttive del paese e settori industriali strategici (come il vostro)?
Valutazioni negative, Draghi e il suo Ministro Colao che, fra l’altro, è l’ex AD di Vodafone) hanno sostenuto fino ad ora il piano dell’attuale AD di TIM e le forze politiche in generale non stanno mostrando alcun interesse verso un argomento che è complesso da comprendere e che meriterebbe anche alcune scelte coraggiose per evitare la dismissione di TIM.
6. Quali azioni dovrebbe mettere in campo un governo che vorrebbe realmente tutelare la propria rete di TLC e gli interessi di lavoratori e cittadini?
Il Governo ha degli strumenti formidabili nelle sue mani che oltre tutto costerebbero anche poco ai contribuenti, per esempio la Golden Power per mettere fine alle speculazioni finanziarie e l’aumento di capitale della CDP in TIM per diventare un azionista di primo piano.
Questo permetterebbe di evitare il dissolvimento della Azienda e ridefinire con calma un piano generale delle TELCO in Italia che tenga conto delle necessità pubbliche e della tutela dei posti di lavoro.
Questa operazione è possibile e non mette neanche in discussione gli interessi privati. Si tratterebbe non di una ripubblicizzazione ma di una fase transitoria alla quale dovrebbe fare seguito una discussione generale sul riassetto del settore, sia dal punto di vista tecnologico, sia dal punto di vista occupazionale. Basta immaginare tutta la frammentazione del mondo call center che pure svolge spesso una attività legata a servizi pubblici o semipubblici.