“Per condurre con successo la lotta contro la borghesia, bisogna avere tra i propri obbiettivi la formazione di un sistema economico senza borghesia”, dice il (nuovo)PCI nell’ultimo numero della sua rivista La Voce, che verrà presentato dal Partito dei CARC il prossimo 13 maggio a Firenze, in via Pratese 48, alle 15.30:
– La condotta politica della borghesia deriva dal suo ruolo come classe dominante in campo economico. Per
condurre con successo la lotta contro il potere della borghesia, bisogna avere tra i propri obiettivi la formazione di un sistema economico senza borghesia: noi comunisti lo abbiamo, è il comunismo. Chi lotta contro il potere della borghesia senza perseguire la formazione di un sistema economico che prescinde dalla borghesia, può avere anche delle vittorie, ma in definitiva non ha prospettive di successo (vedi le organizzazioni islamiste, vedi la “lotta contro il sistema” condotta da “movimenti populisti”, vedi vari movimenti nei paesi oppressi).
– Un movimento che difende, sostiene, fa valere i diritti dei lavoratori senza al contempo costruire la direzione dei lavoratori in campo economico e politico, porta alla paralisi e al caos, quindi al ristabilimento del pieno potere dei padroni (basta pensare, per restare al nostro paese, al movimento degli anni ’70 e prima a quello degli anni ’20). [1]
I revisionisti moderni italiani invece, a partire dagli anni ’50 dello scorso secolo e da Togliatti, hanno voluto fare credere che la società si possa cambiare senza conquistare la direzione dell’economia, senza diventare i dirigenti dell’attività produttiva, senza togliere ai padroni la proprietà dei mezzi di produzione, cioè senza instaurare la dittatura del proletariato e senza fare la rivoluzione socialista.
I revisionisti moderni e gli intellettuali al loro servizio hanno chiamato e ancora chiamano in causa Gramsci, per fargli dire che una rivoluzione non comporta appropriarsi del potere economico, non comporta che l’economia sia diretta dallo Stato ai fini del benessere collettivo e non comporta che sia lo Stato a dirigere la produzione e la distribuzione dei beni essenziali. Questa, hanno detto, è la teoria dell’egemonia di Gramsci, secondo la quale il potere sta nell’azione sul piano politico e culturale, e non nella abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Andiamo a vedere se dicono il vero.
Secondo Gramsci il potere economico è fattore portante di ogni altro potere sociale. “Se l’egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica.”[2] Inoltre “una riforma intellettuale non può non essere legata a un programma di riforma economica” e anzi “il programma di riforma economica è appunto il modo concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. [3] Dice che il consenso spontaneo delle grandi masse della popolazione è dato dal prestigio e dalla fiducia che chi domina trae “dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione.”[4]
I revisionisti moderni e intellettuali al loro servizio hanno detto il falso: non c’è trasformazione reale e duratura della società senza conquista del dominio della produzione, cioè senza che la produzione sia finalizzata al benessere collettivo anziché al profitto individuale, senza che si faccia la rivoluzione socialista. Così diceva il primo partito comunista italiano per bocca di Gramsci, e così dice il (nuovo)Partito comunista italiano, che ha ripreso il lavoro iniziato da Gramsci e dal suo partito per portarlo a compimento, per fare dell’Italia un nuovo paese socialista.
[1]La Voce del (nuovo)PCI, n. 55, marzo 2017, p. 21, in http://www.nuovopci.it/voce/voce55/scienza.html.
[2] Gramsci, Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 2001 (prima ed. 1975), Torino, p. 1291
[3] Ivi, p. 1561.
[4] Ivi, p. 1519.