[Italia] Storie di Buona Scuola: il girone infernale dell’insegnante precario

 

ELENA NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

(OVVERO LA SCUOLA ITALIANA)

C’era una volta, tanto tempo fa…ma forse neanche troppo, una dolce e ingenua bambina: Elena. Ad Elena non piaceva giocare a fare la cuoca con le sue amichette, né portare a spasso le bambole come fossero figlioletti: lei voleva giocare ad essere maestra. Con il passare dei giorni, le amichette (giustamente) non suonavano più alla sua porta di casa per chiamarla perché lei le avrebbe ridotte a recitare la parte delle alunne, vittime delle sue interrogazioni e compiti. E, così, nella sala assolata dai pomeriggi estivi, inventava nomi di studenti e colleghe. Poi crebbe. Drammaticamente. E ora sì, finalmente sarebbe potuta entrare in un’aula vera, con delle persone vere e dei registri veri.

Ma la vita non è un film, figuriamoci una fiaba. Elena, una volta laurata e fatto domanda per l’insegnamento in una provincia (doveva scegliere una provincia italiana e 20 istituti all’interno di essa), pensava, se non di trovare subito il portone di una scuola aperto, almeno di aver riconosciuto il suo titolo di studi…e invece no, povera ingenua. Dopo aver faticosamente e coraggiosamente affrontato esami su esami, aver trascorso giornate e nottate intere riversa sui libri, no, per lo Stato italiano non era abbastanza: non aveva la certezza che Elena sapesse proprio tutto quello su cui aveva lavorato per anni, mettendo in discussione non solo lei, ma anche i docenti che l’avevano giudicata.

“Va beh” pensava l’ingenua “appena uscirà un concorso lo proverò!”. Ma poi scoprì che c’erano concorsi a cui lei non poteva partecipare, concorsi riservati solo agli abilitati. “VA bene” pensava “un conto è sapere una cosa e un conto è saperla insegnare; perciò è giusto che prima abbiano la possibilità gli insegnanti che già sanno insegnare”. Ma poi scopriva contraddizioni interne quali: concorsi aperti solo agli abilitati (e non ai neolaureati) ma anche ai diplomati magistrali prima del 2001 (“perciò un diploma conseguito nel 2001 vale di più della mia laurea?”). E da lì ricorsi e soldi e tentativi vani. Poi un miraggio: il TFA. Il TFA, tirocinio formativo attivo, che sembrò inizialmente essere una manna dal cielo, in realtà si rivelò un’arma a doppio taglio: insegnamento di scienze dell’educazione, tirocinio diretto, insegnamento di didattiche disciplinari, laboratori pedagogico-didattici…per un totale di 1500 ore non retribuite, con frequenza obbligatoria per i corsi universitari e presenza di tutor, nominati da preside, per controllare il lavoro in classe. Elena si era immaginata tanti personaggi nella sua scuola fantastica (collaboratori scolastici, colleghi, alunni, mamme di alunni…) ma non aveva mai pensato ai tutor (“cioè? In pratica maestri dei maestri…”). Tutto le sembrava così paradossale, così inutilmente complicato: addirittura per poter accedere a questo TFA si doveva superare un concorso composto da test preliminare, uno scritto e poi un orale…e quindi, dopo questo calvario, avrebbe potuto insegnare tranquillamente per tutta la vita? No, povera ingenua: sarebbe passata dalla terza fascia alla seconda. Qui è necessario specificare che gli insegnanti sono raggruppati in 3 fasce, simili a gironi infernali: della prima fanno parte i fortunatissimi di ruolo (quelli a tempo indeterminato), della seconda quelli che non sono di ruolo ma che hanno l’abilitazione ad insegnare, della terza…le anime dei dannati (precarissimi e senza abilitazione). Perciò, insomma, dopo un percorso lungo e duro, si sarebbe passati dagli ultimi ai penultimi.

Purtroppo il TFA non portò fortuna a Elena e dovette aspettare…e aspettare ancora. Nel frattempo passò la Buona Scuola (che, a suo parere, di buono aveva solo il nome: maggiore potere ai presidi, incentivi alle scuole private, ore su ore impiegate nell’alternanza scuola lavoro…) e Elena scoprì alcune dinamiche dell’insegnamento: la posizione in graduatoria dipendeva da un punteggio acquisito in base ai giorni lavorativi (e, ovviamente, vista la sua giovane età rispetto ai suoi colleghi, non era messa benissimo…) e in base ai corsi di perfezionamento e di formazione seguiti.

Si trasformò così in “Pointbuster”, un’eroina affamata di punti: corsi e master online ormai impegnavano le sue serate e i suoi weekend non lasciandole praticamente tempo libero per se stessa. Era diventata una macchina da lavoro: la mattina impegnata a scuola (i precarissimi lavorano con le supplenze brevi), il pomeriggio a preparare le lezioni per i suoi studenti e la sera davanti al computer. Una volta fece il conto delle ore: di media il lavoro (perché anche preparare lezioni, renderle interessanti e attualizzarle è lavoro così come approfondire con master e corsi la propria preparazione) la teneva impegnata circa 11 ore al giorno (pause escluse).

Pensò allora che per 1450 euro (comprensivi degli 80 € di Renzi, “Grazie!”) al mese forse non valeva la pena.

Per la prima volta pensò al suo stipendio: fino a quel momento l’amore per la sua materia, per il suo lavoro che le piaceva così tanto da sembrarle una benedizione, un hobby, una fortuna, le aveva impedito di pensare ai soldi. Convinta dell’importanza dell’istruzione, della passione che avrebbe trasmesso, dell’emancipazione mentale che avrebbe creato (continuavano a risuonare nella sua testa le finte lezione improvvisate nella sala assolata che parlavano di uguaglianza, di diritti, di Bellezza…), che importanza avrebbe potuto avere lo stipendio?

Ma 11 ore erano davvero tante: il gioco forse non valeva la candela.

Era stanca, davvero. Stava perdendo la sua passione, vinta da cavilli burocratici, punti accumulati, suicidi e guerra tra i poveri (aveva assistito ad una selvaggia convocazione di massa per spartirsi le cattedre di tutta la provincia e i docenti, alle due di notte, dopo 12 ore, stavano per uccidersi nella spartizione delle ore), quando uscì un articolo provvidenziale: un nuovo concorso…e stavolta aperto a tutti.

“Stavolta è la volta buona!”, ingenua, ingenua Elena. Sì, il concorso era aperto anche ai non abilitati…ma con 24 cfu (i crediti che si prendono all’università, per intenderci) di pedagogia generale, psicologia, antropologia e pedagogia speciale.

Che significava, al cambio, seguire nuovi corsi (ovviamente a pagamento) online o all’università e fare altri esami.

E, una volta superato il concorso…sorpresa: il FIT.

(To be continued…)

Elena P.

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