Intervista a Matteo Moretti del Collettivo di Fabbrica GKN

La lotta GKN viene da lontano ma parla del presente e del futuro

Partiamo da una valutazione del corteo del 18 settembre. Che ruolo ha avuto sulla sentenza del Tribunale del lavoro del 20 settembre? In altri termini la sentenza sarebbe stata la stessa senza quella manifestazione?

La sentenza del 20 settembre è frutto di un percorso di lotta. Se ci si pensa bene l’art. 28 è un articolo contenuto nello Statuto dei Lavoratori che nasce dalle lotte del ‘69-‘70. L’art. 28 si poggia sul Contratto Nazionale anch’esso ottenuto dai lavoratori con la lotta.
A difesa e a rafforzamento dell’art.28 c’è l’accordo interno del luglio 2020, come è stato riportato anche nella sentenza del tribunale del 20 settembre; un accordo che abbiamo ottenuto con una settimana di scioperi a scacchiera. Fino ad arrivare poi alla manifestazione del 18 che ha creato quel clima. Penso comunque che la giudice sia una persona molto indipendente e che non si faccia influenzare: abbiamo avuto a che fare con lei anche altre volte, in varie sentenze e si è sempre dimostrata lineare, corretta e competente.

Considerando il successo della manifestazione, pensi ci siano condizioni favorevoli per affermare il protagonismo operaio al di là delle differenze sindacali e politiche?

Noi stiamo semplicemente continuando a fare quello che già facevamo qua dentro. Cioè, il Collettivo di Fabbrica è quella rete di lavoratori che si rendono disponibili a un confronto e un approfondimento delle situazioni interne, ma anche esterne, al di là dell’iscrizione a qualsiasi sindacato; che uno abbia o non abbia la tessera è indifferente.
Dentro alla GKN l’approccio alla discussione sindacale avveniva in questa maniera e lo svolgimento dell’attività sindacale si basava su un concetto: siamo tutti uguali. Quindi se ha un problema il precario, si interviene sul precario, se ha un problema la ditta esterna, si interviene sulla ditta esterna. Con tutte le difficoltà del caso perché ovviamente questo alimenta il concetto della delega. Nel nostro caso, in particolare, da parte dei lavoratori delle ditte esterne e questo è un problema che c’è sempre stato e che ancora ci trasciniamo dietro. Il protagonismo operaio deve nascere dai lavoratori, diciamo che in questo senso non può essere la GKN a traghettare dettando la linea a un movimento di classe. Oggi facciamo esternamente quello che facevamo internamente.

Per esempio, domani (25 settembre – ndr) andremo a trovare le compagne e i compagni di Alitalia a Roma, sempre domani mattina verranno qua i lavoratori e le lavoratrici di Monte dei Paschi di Siena e nella stessa mattinata una nostra delegazione andrà alla manifestazione di Fridays for Future in centro a Firenze. Insomma quello che facevamo qua dentro, cioè stare dietro alle varie vertenze e problematiche, lo facciamo ora esternamente e questo sta coinvolgendo, sta prendendo… Il nostro modo di lavorare probabilmente piace, ha colpito. Però per noi è una cosa assolutamente normale, tanto che non ce ne rendiamo nemmeno conto perché lo facciamo da sempre, per lo meno dal 2007-2008, cioè da quando abbiamo preso in mano le redini della GKN a livello sindacale. Per noi è normale che sia così.
Qualcuno ci ha già detto: “ma perché non fate un programma con dei punti, una piattaforma…?”, beh no, non è questo quello che vogliamo, non è il nostro scopo metterci a capo di un fronte variegato di situazioni. Ognuno deve insorgere nel proprio posto di lavoro, nei propri ambiti, deve prendere coscienza e far prendere coscienza ai propri colleghi.

Allacciandomi a questo tuo ultimo discorso, rispetto al ruolo che oggettivamente avete, alle aspirazioni che state suscitando tra la classe operaia, un elemento fondamentale è rappresentato dal tipo di organizzazione interna che vi siete dati: un’organizzazione che ricalca l’esperienza dei Consigli di Fabbrica degli anni ‘70. Questo già vi qualifica come qualcosa di particolare e in questo senso siete già un punto di riferimento. Tu questo aspetto lo vedi? Pensi che potreste diventare di esempio per altri lavoratori che cercano una strada?

Il nostro modello non ce lo siamo inventati, l’abbiamo calato sulla nostra fabbrica e sulle nostre esigenze, ma ovviamente parte da quegli anni, dai Consigli e dagli insegnamenti ricavati, forse anche inconsapevolmente, dai racconti degli anziani che ci hanno cresciuto in fabbrica.
Non so se questo può essere il modello generale: ognuno se lo deve calare addosso. Chiaramente dietro il nostro modello c’è un’apertura, nel senso che molto spesso le organizzazioni sindacali tutte, sia quelle confederali che di base, hanno una struttura un po’ piramidale, un po’ chiusa e quindi la tendenza è a cercarsi una fetta di consensi e a gestire la fabbrica, o comunque il posto di lavoro, secondo quella logica. Noi abbiamo fatto l’opposto: avendo vissuto i limiti di quell’esperienza abbiamo deciso di dare la possibilità ai lavoratori, attraverso il Collettivo di Fabbrica di partecipare a uno spazio veramente democratico.

Sai, nei luoghi di lavoro oggi la discussione coi lavoratori o la fai alla macchinetta del caffè, e quindi è ristretta, oppure devi creare spazi di aggregazione e questi spazi sono le assemblee. Nel Contratto metalmeccanico ci sono sette assemblee all’anno, quindi nemmeno una al mese. Noi le abbiamo aumentate, ne abbiamo ottenute una al mese grazie agli accordi interni, ma questo non basta perché a volte l’assemblea è un contesto che inibisce perché i lavoratori non vi sono abituati. Il Collettivo di Fabbrica, invece, è una struttura dove dentro può starci chiunque, al di là della tessera sindacale, ma anche al di là delle idee politiche. Magari, ti ritrovi a parlare con persone con percorsi differenti, che votano la Lega, ci discuti, ci litighi, però questa struttura dà la possibilità a chi vuole di intraprendere anche un percorso di attivismo sindacale, di rappresentanza e cioè di candidarsi alla RSU. Oppure, e anche questo è un elemento introdotto da noi, di diventare delegato di raccordo, che è una figura intermedia tra la RSU e l’assemblea. Noi abbiamo 12 delegati di raccordo in stabilimento che iniziano a masticare alcune tematiche anche più tecniche, a partecipare ai tavoli con l’azienda, che cominciano quindi a vedere cosa succede nei piani alti. In questo modo si formano seguendo un percorso diretto e trasparente fino a decidere, magari, di fare il passo e candidarsi nella RSU.
Quindi il nostro modello parte da questo concetto di apertura verso i lavoratori nella discussione sindacale, questo percorso si è trasformato in quello che siamo oggi.

Come avete detto più volte la soluzione è più generale e politica: secondo te quali sono i passi da fare in questo senso? C’è in ballo la questione della legge contro le delocalizzazioni… Ci aggiorni e ci racconti di che si tratta?

Su questo tema Dario (Salvetti — ndr) è sicuramente più preparato di me, io vengo da un percorso diverso come la maggior parte di noi. Nasciamo come organizzazione sindacale, ci siamo fatti una cultura su quella.
Oggi sicuramente una nostra difficoltà è avere come controparte un fondo finanziario a cui non è mai fregato niente dell’aspetto industriale della fabbrica. Negli ultimi tre anni abbiamo insistito incredibilmente, con mobilitazioni e scioperi, per cercare di controllare e modificare l’organizzazione del lavoro che l’azienda non curava più: si vedeva proprio che le cose venivano lasciate andare.

Grazie alla nostra esperienza di lavoro cercavamo di raddrizzare l’andamento dello stabilimento. La controparte, che è poi tornata a manifestarsi con la sua brutalità il 9 luglio con l’invio di quelle lettere, è praticamente scomparsa lasciando di fatto lo stabilimento al caso, o meglio nelle mani di body guard, mettendo tra l’altro in pericolo l’intera collettività… basti pensare alle acque reflue che potenzialmente potevano inquinare Campi Bisenzio. Questo fa capire con chi abbiamo a che fare.

Anche durante i tavoli di trattativa parlavamo con della gente che guardava solo all’andamento dei titoli in borsa, non gliene importa nulla dello stabilimento.
Quindi, anche grazie a una maggiore consapevolezza acquisita dopo i primi tavoli di trattativa, ci siamo spostati sulla discussione politica. Discussione politica che vede appunto la mobilitazione di questi giuristi e giuslavoristi che hanno steso otto punti che sono alla base della nostra proposta di legge.

L’aspettativa qual è? Di certo non pensiamo che domani questi otto punti diventino legge… Per quanto mi riguarda mi trovo in una situazione che, se mettiamo in secondo piano la tragicità del momento, posso definire buffa… perché in questo dibattito le istituzioni, a tutti i livelli, sono in enorme imbarazzo. Il sindaco di Campi (Emiliano Fossi — ndr) è diventato un fratello di lotta e fino a due mesi prima non ci si guardava nemmeno negli occhi, anche perché appartiene a quella parte politica (PD — ndr) che ci ha tolto gli ultimi diritti rimasti. Mi sento pure al telefono con Giani (Presidente della Regione Toscana — ndr) che nel Consiglio Regionale ha spinto per approvare gli stessi otto punti della proposta di legge…

Oggi il punto sulla legge è che è pronta. È una legge di indirizzo, credo che gli avvocati e i giuslavoristi stiano preparando l’articolato cioè la formulazione vera e propria che serve per poterla discutere e votare in Parlamento.

Non è una legge che vieta la libertà di impresa o altro: rappresenta il percorso che le aziende non in crisi devono seguire prima di aprire le procedure di licenziamento. Se il padrone vuole andare via è libero di farlo, ma deve rispettare questo percorso, deve garantire il livello occupazionale dello stabilimento attraverso la riqualificazione e quindi trovando un’azienda che subentri al suo posto. In relazione a questo, però, viste anche esperienze come quella dell’Electrolux e altre vertenze, ossia – lo dico con una battuta – per impedire che trovino l’arrotino per la strada, lo vestano da grande imprenditore, lo portino in fabbrica per poi scappare e sentirci dire che: “io non sono un imprenditore, ma un arrotino!”, ecco, prima di trovarsi in questo schema, il percorso proposto dall’azienda dev’essere posto al vaglio delle istituzioni, ma con voto vincolante dei lavoratori. Se questo percorso di riqualificazione risulta credibile e ben fatto, l’azienda può procedere e andare via, in caso contrario, subentra un diritto di prelazione da parte dello Stato e dei lavoratori sull’intero stabilimento, macchinari compresi. Ecco lo schema della legge è all’incirca questo.

Abbiamo fatto un appello pubblico prima dell’arrivo della sentenza del 20 settembre, parlando direttamente ai parlamentari e al Governo e dicendo: questa è la legge, chi la vuole prendere la prenda, al di là di tutte le promesse fatte finora. Ci stanno contattando alcuni parlamentari e ci hanno dato la disponibilità a farci fare una conferenza stampa di presentazione alla Camera. In Parlamento si scoprirà anche se chi è venuto a darci la solidarietà è d’accordo con la nostra proposta di legge oppure no.

Il 23 settembre è uscito il comunicato degli ingegneri solidali: fanno un ragionamento molto lucido su come dovrebbe ripartire la produzione. State ragionando di usare anche la ripresa della produzione come ulteriore elemento di pressione?

Allora, noi non possiamo ricominciare a produrre perché produciamo sulla base di commesse: se dobbiamo produrre e mettere pezzi da una parte ad arrugginire non ha senso. Quello a cui stiamo pensando è di far muovere le macchine perché un impianto o singoli macchinari se stanno fermi per tanto tempo si usurano.
Il documento steso dagli ingegneri sintetizza una discussione molto lunga che noi stessi abbiamo fatto, a suo tempo, con l’azienda, pertanto è patrimonio nostro che arriva dalle spalle e dai tendini dei lavoratori.
Il processo di automazione spinta voluto dall’azienda è frutto di una discussione che parte dal 2011: ci eravamo accorti che il montaggio, che era tutto manuale e semi automatico, comportava un grosso sforzo fisico soprattutto negli arti superiori: non a caso in GKN ci sono molte malattie professionali.

Attraverso gli studi ergonomici avevamo suggerito all’azienda un determinato percorso e cioè l’automazione in ausilio al lavoratore tramite dei dispositivi tecnologici per alleviare le posizioni che provocavano queste malattie professionali. L’azienda invece ha scelto la tecnologia in sostituzione dei lavoratori ed è venuto fuori un qualcosa che non funzionava. Le ultime discussioni che stavamo facendo riguardavano proprio l’aumento vertiginoso degli scarti perché una gestione totale da parte della macchina faceva sì che anche un piccolo errore nella produzione del prodotto venisse scartato… per ogni macchina si contavano anche 100 pezzi scartati per turno, che poi dovevano essere comunque movimentati a mano. Insomma, eravamo tornati ai primi anni 2000, quando per l’appunto i lavoratori dovevano movimentare a mano.

Quindi, questa famosa industria 4.0 non è stata gestita bene proprio perché l’azienda aveva privilegiato l’abbassamento del costo del semiasse diminuendo il numero dei lavoratori impiegati. Noi abbiamo segnalato questo problema, ma gli ingegneri nello stabilimento erano sottomessi alle scelte di Melrose.
In realtà tutto il processo produttivo può essere ottimizzato, va ottimizzato e ci sono ampi margini di miglioramento.

In varie occasioni avete detto: “non possiamo farci carico di risollevare il movimento politico di classe di questo paese”. Che pezzo deve metterci la politica intesa come organizzazioni di classe, politiche e sindacali?

Credo sia importante che, tanto a livello di partiti che di sindacati, si smetta di litigare, si smetta di mettere il cappello o tirare per la giacchetta una lotta, una vertenza, che sta marciando sulle gambe di un collettivo che è espressione del protagonismo dei lavoratori.
Le diversità devono esserci, non vogliamo egemonia di idee e storie. Un miracolo, diciamo così, è già avvenuto: il corteo del 18 settembre, come quello dell’11 agosto e del 24 luglio, ma come anche lo sciopero provinciale del 19 luglio indetto dalla CGIL, hanno visto la partecipazione, oltre che di tante organizzazioni politiche, anche dei sindacati di base. Noi vogliamo che questo miracolo si ripeta: l’11 ottobre ci sarà lo sciopero del sindacalismo di base e bè sarebbe bello che coincidesse con lo sciopero generale regionale anche della CGIL.

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