[Firenze] Il proletariato non si è pentito: presentazione Sabato 17 Giugno

Il proletariato non si è pentito a Firenze.

(contributo del Centro di Formazione del P.CARC per la Festa Federale della Riscossa Popolare in Toscana)

Il prossimo 17 giugno, nell’ambito della Festa Federale della Riscossa Popolare, il Partito dei CARC a Firenze (alla Casa del Popolo di Peretola, in via Pratese 48, alle ore 18.30) terrà una presentazione di un libro pubblicato a cura di Adriana Chiaia nel 1985, Il proletariato non si è pentito, un insieme di documenti dell’epoca, raccolti da compagni e compagne del Coordinamento dei Comitati contro la Repressione. È stata la principale opera di critica e lotta contro il pentitismo e la dissociazione, le armi che la borghesia usò insieme agli assassinii, alla tortura, al carcere. Ogni presentazione di questo libro è occasione di parlare di quegli anni, e del fenomeno che li segnò, cioè lo scontro di classe tra Organizzazioni Comuniste Combattenti, prime tra le quali furono le Brigate Rosse, e lo Stato della borghesia imperialista. Queste presentazioni sono espressione della ripresa della discussione sulla materia con varie presentazioni di libri e dell’intensificazione del lavoro di solidarietà con i rivoluzionari prigionieri e della denuncia dello stato di isolamento cui sono costretti, come nel caso di quelli a cui è negato ricevere libri (vedi in http://femminismorivoluzionario.blogspot.it/2017/06/ne-libri-ne-soldi-nadia-lioce-deve.html?m=1).

Uno di questi libri che vengono presentati è Correvo pensando ad Anna, opera autobiografica di Pasquale Abatangelo.[1] Abatangelo è stato un combattente prima nei Nuclei Armati Proletari e quindi nelle Brigate Rosse. Nel libro il compagno parla di un episodio importante della lotta di classe a Firenze, avvenuto il 29 ottobre 1974, quando in piazza Alberti caddero uccisi Luca Mantini e Sergio Romeo. Il compagno scrive:

“La rapina di piazza Alberti e la morte di Luca Mantini e di Sergio Romeo destarono una enorme sensazione tra l’opinione pubblica e nel movimento rivoluzionario. Erano i  primi morti della guerriglia italiana dopo Giangiacomo Feltrinelli, e la dinamica apparente dei fatti indusse molti a ipotizzare un agguato dei carabinieri nei nostri confronti. Ma è chiaro che non si verificò niente del genere. Non si tende un agguato contro cinque rapinatori con una pattuglia di tre uomini, di cui due in “pausa colazione”. Se i carabinieri ci avessero davvero aspettato, si sarebbero presentati in forze, e da quella piazza nessuno avrebbe potuto allontanarsi, mentre noi lo facemmo in tre su cinque. La verità è che molto dipese dal caso e dalla nostra cocciutaggine, che ci condusse fino a piazza Alberti, in un sorta di safari improvvisato (…).

Ma bisogna avere il coraggio di riconoscere gli errori e di guardare in faccia le cose. Peccammo di frettolosità sia nella riunione plenaria, sia sul terreno di azione. La partita di armi era sicuramente importante, ma non abbastanza da autorizzare una rapina priva di inchiesta seria e approfondita (…).

Insisto su questo, non solo e non tanto per rispetto della verità, che pure è importante, quanto per i risvolti, diciamo così, ideologici del vittimismo. Piazza Alberti rimase per anni sinonimo di massacro prestabilito e di strapotere dell’avversario, colorandosi in qualche modo di mistero. Ma le sconfitte spiegate con il ricorso a teoremi fantasiosi non permettono di imparare nulla dall’esperienza. Si finisce per minimizzare i propri errori, proprio perché si immagina un avversario troppo forte, dotato del controllo totale dei nostri movimenti. E anche quando si vince una battaglia, si arriva a pensare di avercela fatta solo in quanto il nemico, per un suo presunto calcolo politico, ci ha permesso di spuntarla.

È una logica perdente. Porta a giustificare le sconfitte e a mettere in dubbio la natura delle vittorie. Ostacola la comprensione dei fatti e dei conflitti sociali, inquinando e distorcendo la realtà, negando il caso, le scelte incrociate degli individui, e la possibilità di agire sempre più razionalmente in un contesto che non possiamo controllare del tutto, ma abbiamo il dovere di analizzare al meglio.

E poi ancora una cosa. Il vittimismo ci lusinga sempre con la sua malinconia e il suo donchisciottismo aureolato di eroismo nobile e perdente. Ma in fondo non rende merito neppure ai morti, che non hanno bisogno di essere dipinti come bestie destinate ai mattatoi preordinati dal potere per essere ricordati con affetto e onore”. [2]

Abbiamo riportato questo passaggio perché le presentazioni del libro che facciamo sono espressione di un lavoro scientifico che portiamo avanti, sia nel senso di ricerca sia nel senso di divulgazione scientifica, dove con scienza intendiamo la concezione a fondamento della quale possiamo fare (costruire) la rivoluzione socialista, che è quella per cui caddero Luca Mantini e Sergio Romeo, e tanti altri compagni e compagne ed è scienza del modo di condurre con successo la guerra tra le classi.[3] Pasquale Abatangelo qui fissa in bacheca con lo spillo due concetti estremamente interessanti per la scienza di cui stiamo parlando, e cioè quello dell’onnipotenza della classe che opprime cui fa complemento l’altro, quello dell’impotenza della classe che è oppressa. Sono concetti che non fanno parte della scienza rivoluzionaria, come si vede chiaramente quando sono fissati in bacheca con lo spillo: fosse vero che chi opprime è onnipotente, nessuna rivoluzione mai potremmo fare né avrebbero potuto farne chi ci ha preceduto.

In particolare, con riferimento alle Brigate Rosse, nelle file della sinistra borghese i concetti indicati da Pasquale Abatangelo sono i seguenti: chi ha combattuto è stato eroico, come eroici furono Cavallo Pazzo, Che Guevara e altri che si lanciarono contro un nemico che non è possibile vincere, e quindi si lanciarono verso la morte.[4]

È chiaro che sono concetti che fanno parte dell’ideologia della classe che opprime, che infatti se ne serve come arma ideologica: il nemico, in questo caso la borghesia imperialista, si dichiara onnipotente per impedire che chi lo attacca, in questo caso la classe operaia guidata dal proprio partito comunista, scopra che non lo è, scopra i suoi punti deboli. La borghesia imperialista dichiara in aggiunta che a tutta questa sua potenza corrisponde l’assoluta impotenza della classe operaia, e anche questo è chiaramente un arnese della propaganda di guerra. Si tratta quindi di concezione borghese del mondo, con l’aggiunta della concezione clericale del mondo, particolarmente forte in un paese come il nostro, che chiamiamo Repubblica Pontifica per il ruolo dirigente che ha il Vaticano: secondo la concezione clericale del mondo compagni e compagne caduti sono accettabili come martiri, e quelli che parlano nei palchi e nei mass media sono accettabili come pentiti.

Fare propri questi concetti quindi non è cosa da comunista o da rivoluzionario, perché non è da rivoluzionario pensare che faremo la rivoluzione quando la borghesia ce la lascerà fare. Secondo la concezione comunista del mondo le cose stanno in modo del tutto opposto, infatti. È la classe operaia che può tutto, mentre per la borghesia imperialista, effettivamente, come dicono i suoi ideologi, la storia è finita. Del rapporto tra “onnipotenza” e “impotenza” si occupa il (nuovo)PCI nel suo Manifesto Programma,[5]nella parte dove spiega come la clandestinità, condizione necessaria per un partito che vuole fare la rivoluzione socialista, è anche possibile.

È possibile costruire un partito comunista clandestino nelle condizioni attuali di controrivoluzione preventiva e al di fuori delle condizioni di una guerra generale? Non è fatale che la borghesia imperialista riesca a impedirne l’esistenza, a stroncare ogni sforzo di costruirlo?

La costruzione del partito comunista nella clandestinità è impresa necessaria e possibile, benché sia un’impresa difficile, essendo un’impresa nuova e in cui, a causa del guasto prodotto dai revisionisti moderni, non possiamo che in minima parte giovarci del patrimonio di esperienze accumulato dai partiti della prima Internazionale Comunista. Nel nostro paese possiamo però giovarci anche dell’esperienza delle Brigate Rosse (…)

La classe operaia ha avuto nel passato partiti clandestini in varie circostanze: nella Russia zarista, nella Cina nazionalista, nell’Italia fascista e in molti altri paesi. I revisionisti moderni hanno alimentato e alimentano l’immagine terroristica della borghesia onnipotente per togliere alla classe operaia uno strumento indispensabile per la sua lotta rivoluzionaria. “Dio è dappertutto”, “Dio vede tutto”, “Dio può tutto” dicono i preti; i portavoce della borghesia e i revisionisti hanno sostituito queste vecchie frasi minatorie dei preti con “La CIA vede tutto, è dappertutto, può tutto”, “Non si muove foglia che la CIA non voglia” e hanno promosso uno sgangherato carrozzone di assassini, di spioni e di mercenari assetati di denaro e di carriera al ruolo di Dio onnipotente! Se i movimenti rivoluzionari negli USA non sono riusciti a svilupparsi, secondo loro la colpa è della CIA e della FBI. Se le Brigate Rosse sono state sconfitte, è “merito dello Stato che a un certo punto ha incominciato a combatterle sul serio”. E così via. L’onnipotenza della classe dominante è stato sempre un tema della propaganda terroristica della stessa classe dominante e una giustificazione sia degli opportunisti sia degli sconfitti che non vogliono riconoscere i propri errori e fare autocritica. Se la ferocia e l’intelligenza delle classi dominanti potessero fermare il movimento di emancipazione delle classi oppresse, la storia sarebbe ancora ferma allo schiavismo. La società borghese è ricca di contraddizioni, ha in sé tanti fattori di instabilità, il suo funzionamento è costituito da un numero illimitato di traffici e di movimenti e per il suo funzionamento la borghesia è costretta ad avvalersi delle masse che nello stesso tempo calpesta: insomma è una società che più delle precedenti società di classe presenta lati favorevoli all’attività delle classi oppresse, che siano decise a battersi. L’attività clandestina che tutti i partiti rivoluzionari hanno dovuto e devono condurre anche nei paesi imperialisti (anche se si professano legali e condannano la clandestinità e quindi la conducono in maniera ausiliaria e dilettantesca), così come l’esperienza delle Brigate Rosse e delle società segrete,[6] confermano che un’organizzazione clandestina può esistere nei paesi imperialisti nonostante il regime di controrivoluzione preventiva, anche nei paesi non coinvolti in una guerra esterna, in periodo di “pace”.

La possibilità per un partito comunista di costituirsi e operare clandestinamente dipende in definitiva dal suo legame con le masse e questo a sua volta dipende dalla linea politica del partito: se essa è o no conforme alle reali condizioni concrete dello scontro che le masse stanno vivendo pur avendone esse una coscienza limitata. Questa è la chiave del successo o della sconfitta di un partito comunista. Per quanto feroce e capillare sia la repressione, essa non è mai riuscita a impedire la vita e l’attività di un partito comunista che aveva una linea giusta e sulla base di questa linea attingeva all’inesauribile serbatoio di energie e di risorse di ogni genere costituito dalla classe operaia, dal proletariato e dalle masse popolari.[7]

[1]Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni settanta, ed. DEA Press, Firenze, 2017.

[2]Ivi, pagg. 105-106.

[3]La rivoluzione si costruisce come una guerra, e precisamente come una guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata. I principi di questa guerra, rielaborati e sviluppati dal (nuovo)PCI sono stati esposti in modo chiaro e sperimentati da Mao Tsetung, e, in Italia, da Antonio Gramsci. Vedi al riguardo http://www.nuovopci.it/voce/voce17/disting.htm, e http://www.nuovopci.it/voce/voce44/grmegrp.html.

[4]Dalle file della destra borghese l’esperienza delle BR è falsificata e denigrata, dalle file della sinistra borghese è guardata con vittimismo e donchisciottismo, ma le due parti sono d’accordo nel dirla finita, morta, sepolta e irripetibile (d’altra parte secondo loro. il comunismo in toto è morto).

[5]Manifesto Programma del (nuovo)PCI, ed. Rapporti Sociali, Milano, 2008.

[6]Il (nuovo)PCI intende con il termine “società segrete” quelle che si sono costituite al termine dell’esperienza delle Brigate Rosse e ne hanno voluto riprodurre la pratica in modo meccanico, senza trarre un bilancio della loro storia, senza esaminare la variazione del contesto presente rispetto a quello in cui le Brigate Rosse si costituirono e acquistarono forza.

[7]Ivi, pagg. 220-221.

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