Il 16 febbraio scorso, a margine della presentazione di Rivoluzionaria Professionale di Teresa Noce alla Credenza di Bussoleno, abbiamo intervistato la compagna Nicoletta Dosio e trattato dell’esperienza di violazione delle restrizioni personali a cui il Tribunale di Torino l’aveva condannata. La vicenda è molto nota e non la ricostruiamo per intero, le risposte di Nicoletta la illustrano nelle parti salienti e le sue valutazioni la arricchiscono fino a mostrare pienamente la forza del movimento NO TAV e la forza delle masse popolari.
La decisione di violare le restrizioni imposte dal Tribunale di Torino ha segnato un punto di rottura nella mobilitazione contro la repressione perché anziché delegare la difesa agli avvocati e ai tribunali, tu e il movimento che ti ha sostenuto avete costruito un muro contro l’attacco repressivo. Puoi parlarci di questa esperienza?
La repressione è un segno di arroganza, ma anche di debolezza del potere che ti reprime. Se ci si rende conto che la repressione è esattamente questo, la risposta da dare non è quella del piangersi addosso, ma dell’intensificare la lotta.
Noi in valle abbiamo imparato, con la lotta popolare e con una consapevolezza che è nata anche dalla combinazione di storie diverse che si sono messe insieme, a distinguere tra legalità e legittimità, tra legalità e giustizia. Anche chi si illudeva che la legge e la sua applicazione fossero una garanzia contro l’ingiustizia, ha capito a proprie spese che così non era.
Nella fattispecie queste misure comminate a me e ad altri, che sono preventive, sono più che mai il segno di una persecuzione.
Fino a un certo punto cercavano di distinguere fra i “buoni e i cattivi”, i “black bloc” e chi veniva da fuori con degli “intenti non chiari” contrapposti ai “buoni valligiani”, che protestavano e che avevano tutti i diritti a farlo, purché lo facessero in modo non violento. Ma noi la differenza fra violenti e non violenti l’abbiamo, da lungo tempo, cassata.
Per quanto mi riguardava, si trattava di andare quotidianamente a firmare dai carabinieri. Mi sembrava davvero una cosa insostenibile… Non tanto per superbia da parte mia, ma perché mi sono chiesta per quale motivo dovessi sottostare a una cosa ingiusta, come reazione a una manifestazione come tante altre. Infatti la violenza e la prepotenza l’avevamo subita noi con decine e decine di lacrimogeni, che avevano colpito anziani, donne, bambini, in un momento che era il ricordo della fine della Libera Repubblica della Maddalena, ma anche un momento per ribadire che la lotta popolare c’era ed era compatta, con tutti i suoi aspetti, anche quelli più gioiosi, più popolari, che sono poi una delle caratteristiche costanti della nostra lotta. Quindi è stato naturale, l’uovo di Colombo, non accettare queste misure. Che senso aveva andare a firmare dai Carabinieri? Significava umiliarsi davanti a loro, andare là e dire “sono qui, controllatemi pure, obbedisco e quindi (forse) chiedo venia”. Quindi non l’ho fatto e immediatamente si è alzata una barriera, quella che noi chiamiamo “muro popolare”: persone del movimento e non solo che hanno sostenuto questa situazione. Vado avanti per un po’ con questa questione delle firme, poi arriva il secondo livello. Di solito succede al contrario: partono con le misure più pesanti e poi, via via e se ti comporti bene, te le scalano. Per me no, il secondo livello è stato l’obbligo di soggiorno a Bussoleno e il rientro in casa dalle 6 di sera alle 8 del mattino. A questo punto è scattato il “NO TAV Tour”: per rispondere all’obbligo di dimora ho cominciato a girare, a raccontare la nostra storia in tante parti d’Italia. La risposta si è quindi diffusa oltre la valle, non solo con dichiarazioni di solidarietà, ma con inviti un po’ da tutta Italia: a volte andavo io, altre volte andavano altri compagni a raccontare la storia; perché quello che deve essere chiaro è che non si tratta di una persona sola, ma siamo un movimento che, magari appoggiando la posizione di una persona, lotta collettivamente. Da soli non si fa niente, questo voglio dire.
In uno dei tanti tour a cui avevo partecipato ero andata a Piacenza alla manifestazione per quel compagno che era stato ammazzato col camion durante un picchetto (si riferisce all’omicidio di Abd El Salam, durante uno sciopero alla GLS nell’ottobre scorso – ndr). Il giorno dopo arrivano gli arresti domiciliari. Come abbiamo risposto? Sono venuti compagni e compagne sotto casa mia, mi hanno presa e mi hanno accompagnata qui alla Credenza (storico punto di ritrovo per il movimento NO TAV – ndr), perché ho deciso che a casa non ci sarei più rimasta, perché “a casa” era il posto dove mi erano stati imposti i domiciliari. Per cui la cosa è andata avanti, continuavo ad andare in giro e comunque stavo qui, a casa non mi hanno mai trovato. La cosa ha cominciato a creare difficoltà per loro.
Un’altra cosa è importante: era un’evasione, ma non mi nascondevo, anzi la rivendicavo pubblicamente. Sotto alla Credenza è nato il muro popolare, quindi c’erano compagni e compagne che presidiavano qui di notte, altre venivano di giorno, per impedire che venissero a prendermi e portarmi via. Io avevo il fagottino pronto con tutte le cose che si potevano portare in carcere, quindi tranquillamente si aspettava qualsiasi evento, senza nessuna angoscia, perché c’era il senso della cosa giusta da fare. Non ero più neppure andata al Tribunale, mandavo le dichiarazioni sul fatto che non volevo farmi carceriera di me stessa. Mi sentivo di farlo, c’era questo aiuto generale e allora non solo andavo in giro, ma sono anche andata a dare solidarietà ai compagni del “processone” (il maxi-processo di Torino, per i fatti del 27 Giugno e del 3 Luglio 2011 al cantiere di Chiomonte – ndr) e lì mi hanno presa. E immediatamente dopo il processo per direttissima, sono venuti a prendermi a casa e naturalmente non mi hanno trovata. Allora sono venuti alla Credenza, mi hanno preso di forza e mi hanno portata in Tribunale: lì ho rilasciato una dichiarazione. Loro hanno tentato in tutti i modi di farmi fare il rito abbreviato. Addirittura il Pubblico Ministero diceva alla mia avvocata: “ma se vuole lo dico io alla sua assistita che il rito abbreviato dà la possibilità di avere lo sconto di un terzo della pena immediatamente”. Ma a me non interessava nessuno sconto e nessuna trattativa, per cui siamo andati con il procedimento normale e c’è poi stato il processo, con tutti i compagni che sono venuti a sostenere. Alla fine la situazione è diventata insostenibile per la Procura che ha tentato di fermare tutto questo. In che modo? Intanto facendo finta di non vedermi quando andavo in giro! Addirittura siamo andati in Clarea a una manifestazione: io ero sull’auto, chiedono i documenti perché non volevano farci passare e io naturalmente ho dato il mio documento; l’hanno visto, hanno telefonato e… passate pure! In poche parole ero diventata invisibile perché non sapevano come gestire la situazione!
Possiamo concludere che la linea del “muro popolare”, lo sviluppo della solidarietà fino alle estreme conseguenze, come hai fatto tu, apre delle contraddizioni nel campo nemico, nella Polizia, nella Magistratura…
Certo, al Tribunale di Torino la contraddizione si è aperta e non si è ancora chiusa. Si è aperta nella Procura, che prima ha inflitto le denunce che il Tribunale ha accettato, ma ha fatto marcia indietro, senza nessuna motivazione reale se non quella dell’età. Però quella dell’età è una scusa, perché quell’età ce l’avevo già quando tutte queste cose me le han date: volevano evitare il passo successivo, che sarebbe stato quello di mettermi in carcere, ma a questo punto hanno capito che sarebbe scoppiato il finimondo. Già quando mi hanno fermata a Terni (il 16 novembre – ndr) c’è stata una scena particolare. Sono arrivati i Carabinieri e mi hanno fermato perché avevano la segnalazione… ma poi hanno scoperto che non avrebbero avuto una Medaglia al Valore per la mia cattura, casomai una lavata di testa… davvero mi sentivo invisibile, ormai. È una situazione strana, perché io facevo di tutto per essere vista, col mio protagonismo e loro non mi vedevano da nessuna parte!
È nata questa spaccatura fra la Procura, che a tutti i costi chiedeva che mi si togliessero le misure, e il giudice, che giustamente diceva: “ma non è possibile, le avete chieste voi!”. Intanto era saltata fuori una seconda misura cautelare, che era il divieto di andare a Susa per una manifestazione contro il nuovo mega elettrodotto che vogliono fare. A questo punto a me non arriva questa misura, anche se il mio nome compariva su tutti i fogli mandati agli altri compagni, perché ce n’erano due o tre che avevano più o meno le stesse misure. A me non arrivava perché la Procura l’aveva bloccata, mentre io avevo detto immediatamente: “adesso andrò a Susa” e difatti ho cominciato ad andare a Susa. Quindi era una contraddizione da cui non potevano uscire in alcun modo e le castagne dal fuoco gliele ha tolte la Cassazione. Tutto è finito a tarallucci e vino, diciamo.
Un’altra cosa importante che abbiamo fatto è pubblicare le motivazioni, i documenti, anche quelli riservati, che la Procura non aveva pubblicato e che a me dovevano dare per forza perché interessata: noi abbiamo dato pubblicità a tutto in modo tale che si vedesse passo dopo passo quali erano i loro strumenti. Quindi la miglior difesa è davvero l’attacco: non piangersi addosso, avendo la consapevolezza che è una prepotenza quella che ti fanno, che non è un atto di giustizia, ma un atto di arroganza, che è una vendetta e l’unico modo di rispondere è non accettare queste cose.
Poi, complessivamente, la repressione si fa più dura e le cose si stanno aggravando: siamo arrivati alla custodia di garanzia. Mi riferisco ai compagni di Roma del movimento di lotta per la casa…
Esatto, Paolo Di Vetta e Luca Fagiano del movimento di lotta per la casa a Roma, il trappolone repressivo-mediatico contro Aldo Milani, dirigente del Si Cobas, ne sono esempi. Sulla base della tua esperienza, cosa dici a questi compagni? Ritieni che l’esperienza che hai compiuto tu possa essere replicabile?
Io mi sono sentita di fare questo atto e di certo non lo si può imporre a nessuno, naturalmente. Soprattutto, non si può pretendere che uno lo faccia se è da solo, quindi deve essere una responsabilità collettiva. Si deve capire che non è obbligatorio sottostare a queste misure. Loro vogliono obbligarti, ma la tua lotta sta nel rifiutarlo. Quindi io davvero sono convinta che è un segno di forza per noi e di debolezza per loro il non accettare queste misure. Però si può fare soltanto se intorno a te hai un movimento che ti sostiene veramente e se sei veramente convinto di farlo.
Vale la pena di disobbedire anche da soli, ma da soli la cosa finisce in niente e viene travolta, viene silenziata. Insieme invece ce la si può fare.
Credo che sia un nuovo strumento di lotta, quindi, che non può essere imposto, ma che deve essere soprattutto sostenuto da tutti, a tutti i livelli, con le barricate reali e con le barricate di carta, perché se c’è qualcosa di incostituzionale sono proprio queste misure preventive e questi nuovi strumenti di repressione.
Dopo il referendum del 4 dicembre si fa strada la parola d’ordine applicare la Costituzione: c’è stata l’assemblea del 28 Gennaio di Eurostop, prosegue il fronte di “C’è che dice no”, c’è l’esperienza promossa dall’ex giudice della Corte Costituzionale Paolo Maddalena… Ritieni che possa esserci coordinamento tra i vari ambiti, gruppi, aree che oggi si mobilitano e promuovono la lotta sulla parola d’ordine dell’applicazione della Costituzione e quindi anche tra quelle esperienze e quella del movimento NO TAV?
Io direi che questo è fondamentale. E’ importante riprendere quelli che sono gli articoli della Costituzione che parlano della necessità di uguaglianza, che parlano del diritto alla salute, del diritto alla scuola, del diritto alla casa, diritti che sono più che mai lettera morta. È importante che si faccia collettivamente, però nella chiarezza: avere chiaro l’obiettivo, dove si vuole arrivare e non giocare su questi temi, perché anche questo NO aveva intorno a sé tutta una serie di opportunismi che non servono alla lotta reale. Là dove non c’è opportunismo e le idee sono chiare è fondamentale unirsi.
La storia del movimento NO TAV insegna: per quale motivo ormai sono quasi trent’anni che andiamo avanti? Perché siamo stati capaci di catalizzare anche storie diverse, esperienze diverse, a una condizione, però: la tendenza alla crescita verso l’alto, con la chiarezza nelle posizioni e negli obiettivi, senza mediazioni, senza accettare quelle che erano le compensazioni che venivano offerte. Tutto questo ha comportato una crescita politica in tanti, anche i principi e i riferimenti della Resistenza sono diventati nuovamente reali, vivi e praticabili perché sono concretamente applicati nella lotta quotidiana, anche da chi magari era lontano da quel mondo. Quindi noi pensiamo che le lotte debbano essere inclusive e non esclusive, sul piano della chiarezza e del rifiuto dell’opportunismo. Questa unità è molto diversa da quelli che erano i famosi intergruppi, si cresce insieme con un obbiettivo che sia chiaro e l’obiettivo deve essere sempre quello, cioè dare a ognuno secondo le sue necessità e prendere da ognuno secondo le sue possibilità.
La rivoluzione si fa qui e ora, mettendo in discussione il posto dove vivi, il posto di lavoro o di disoccupazione, quindi spostando momento per momento l’asticella per salire. Si può fare, se ognuno ha le capacità di veder negli altri una risorsa per se stessi e sentendosi ognuno risorsa anche per gli altri che si hanno intorno. Anche perché non è vero che una rivoluzione non c’è, i padroni la stanno facendo, la lotta di classe la stanno facendo più che mai. Forse siamo noi che non abbiamo più fiducia nelle nostre forze: bisogna riprendere una fiducia concreta, non una speranza astratta, giorno per giorno. Anche questa piccola cosa, il riuscire a tenere in scacco il Tribunale di Torino, credo che sia un elemento di speranza concreta nella lotta, che magari non può essere un modello assoluto, ma sicuramente è uno strumento in più.