Nella notte tra il 17 e il 18 marzo, con pesanti bombardamenti che hanno causato centinaia di vittime tra la popolazione civile, i sionisti hanno rotto unilateralmente la tregua stipulata il 18 gennaio scorso.
Invece di passare, come concordato tra le parti, alla fase due del cessate il fuoco, che prevedeva il rilascio di tutti i prigionieri, il governo sionista ha ripreso il sistematico massacro della popolazione di Gaza, senz’altro motivo se non la volontà di andare a fondo nel genocidio dei palestinesi.
Il massacro è ripreso con l’aperto sostegno degli imperialisti Usa.
Ora che si sta disimpegnando dalla guerra per procura in Ucraina, Trump può investire maggiori risorse nel supporto militare ed economico ai sionisti. E infatti, fin dal suo insediamento, alle manovre per trovare un accordo con la Federazione Russa ha accompagnato dichiarazioni e minacce dirette alla Resistenza palestinese che spingevano verso una ripresa dispiegata del genocidio a Gaza.
Questa è stata una condizione decisiva per spingere i sionisti a rompere il cessate il fuoco. La tregua imposta da quella Resistenza palestinese che i sionisti non sono riusciti a piegare ha infatti prodotto in Israele una grave crisi economica, sociale e politica che aveva costretto i sionisti al cessate il fuoco. Senza un maggiore sostegno degli imperialisti Usa, difficilmente sarebbe stato possibile per Israele pensare di riprendere le operazioni militari per proseguire l’opera di sterminio dei gazawi.
Ma la rottura della tregua non è stata priva conseguenze per i sionisti. Al contrario: durissime e partecipatissime proteste si sono infatti susseguite in tutto il paese, assediando ripetutamente la Knesset (il parlamento) e la casa privata di Netanyahu. Anche perché è oramai chiaro a tutti, anche dentro Israele, che la ripresa del massacro a Gaza non ha nessuna prospettiva di salvare i prigionieri, ma significa, al contrario, che il governo li condanna a morte per il proprio tornaconto, mentre manda la polizia a manganellare i loro parenti che manifestano per chiedere la ripresa delle trattative.
Le mobilitazioni contro la rottura del cessate il fuoco si sono poi intrecciate con quelle contro il licenziamento di Ronen Bar e in generale contro la “svolta autoritaria” del governo. Il clima è così teso che il principale esponente dell’opposizione, Benny Gantz, ha dichiarato: “Il paese è sull’orlo di una guerra civile”.
La crisi dello Stato sionista
Dal 7 ottobre 2023 in Israele il Pil pro capite ha smesso di crescere e ha cominciato a contrarsi. Il debito pubblico è esploso (ed è stato declassato dalle agenzie di rating) a causa delle spese militari, che la banca centrale israeliana stima nell’ordine dei 60 miliardi di dollari. Nell’ultimo trimestre del 2024, poi, l’economia si è contratta addirittura del 27%. Lo scorso luglio il quotidiano in lingua ebraico Maariv ha riferito che erano già oltre 46 mila le aziende che hanno chiuso i battenti dal 7 ottobre a causa della carenza sistematica di mano d’opera dovuta alle ancora maggiori limitazioni imposte alla circolazione dei cittadini arabi e alla mobilitazione militare. Inoltre, da paese di immigrazione, Israele è diventato un paese di emigrazione, con un totale di 500 mila abitanti in meno dall’inizio del conflitto.
Alla crisi economica si somma quella sociale. Gli sfollati sono più di centomila su un paese di nove milioni di abitanti. La sindrome da disturbo post traumatico è diventato un fenomeno di massa, che si stima colpisce almeno tre milioni di abitanti. Dal 7 ottobre sono inoltre trentotto i militari israeliani che si sono tolti la vita.
C’è, infine, la gravissima crisi politica, con la guerra per bande che infuria fra le diverse fazioni dei gruppi imperialisti sionisti e che si intreccia strettamente con la guerra sui fronti esterni.
Il 20 marzo, appena due giorni dopo la ripresa del massacro a Gaza, il governo ha approvato all’unanimità la proposta del primo ministro di rimuovere Ronen Bar dal suo incarico di direttore dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, che a sua volta stava indagando sul governo e sul primo ministro. La misura è stata sospesa dalla Corte suprema. Il governo ha quindi approvato una mozione di sfiducia nei confronti della procuratrice generale Gali Baharav-Miara e il 28 marzo ha approvato una legge che aumenta il controllo del governo sulla magistratura.
Insomma, a dispetto della forza e della ferocia che ostentano, i sionisti non sono mai stati così deboli.
Dal canto suo la Resistenza palestinese – la cui capacità è tutt’altro che smantellata, come a più riprese hanno annunciato trionfalmente i sionisti – ha immediatamente ripreso le azioni di guerriglia e il lancio di razzi verso Israele.
Ma ha da subito messo in campo anche operazioni tattiche sul piano delle trattative. Si è dichiarata disponibile ad accettare la proposta dell’Egitto per una nuova tregua, dimostrando una volta di più come la responsabilità della ripresa del massacro ricada interamente sugli imperialisti Usa e sionisti. E ha pubblicato un nuovo video, dove due prigionieri si appellano al governo sionista perché torni a un cessate il fuoco, per aumentare la pressione affinché riprendano le trattative.
Anche gli Houthi, nonostante dal 17 marzo siano nuovamente oggetto di sistematici bombardamenti condotti dall’esercito Usa che hanno già causato centinaia di vittime civili, hanno ripreso dallo Yemen le azioni di sostegno alla Resistenza, con ripetuti lanci di missili verso Israele.
Il 26 marzo hanno dichiarato poi di aver colpito la portaerei Uss Harry S. Truman in risposta agli attacchi statunitensi.
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L’ultima speranza dei sionisti è dividere il fronte della Resistenza palestinese
L’unità del popolo palestinese e delle forze che lottano contro i sionisti è l’arma invincibile della Resistenza. Dopo che in un anno e mezzo di attacco frontale e di massacri gli imperialisti Usa e sionisti non sono riusciti a piegarla, cercano ora di averne ragione facendo leva sui vertici dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) per rompere questa unità e dividere il fronte della Resistenza.
Ma finora l’unità è stata difesa con tenacia e intelligenza, nonostante i contrasti esistenti con l’Anp e l’opera degli imperialisti Usa e sionisti per alimentarli.
Già a gennaio i vertici dell’Anp si erano prestati in Cisgiordania a un’opera di repressione nei confronti della Resistenza. Ma l’appoggio del popolo palestinese (compresa la base di Fatah, il principale partito dell’Anp) alla lotta contro i sionisti, unitamente alla politica di unità nazionale perseguita dalle forze della Resistenza, aveva costretto i vertici dell’Anp a cessare la guerra fratricida.
Sempre a gennaio il presidente dell’Anp Abu Mazen aveva pubblicato il “piano dei cento giorni”, un documento inviato al governo di Usa, Egitto, Qatar e Unione Europea dove presentava un progetto di ricostruzione e gestione di Gaza che estrometteva Hamas e le altre forze della Resistenza, cercando così di accreditarsi presso gli imperialisti come forza affidabile. Ma anche questa operazione non ha prodotto grandi risultati.
Ora, con la rottura del cessate il fuoco, in uno dei momenti più tragici del conflitto, l’Anp è tornata a prestarsi a operazioni che minano l’unità del popolo palestinese.
A partire dal 25 marzo, si sono svolte a Gaza alcune manifestazioni contro la guerra, immediatamente strumentalizzate dai media come “proteste contro Hamas” (l’organizzazione islamica ha accusato i sionisti e l’Anp di averle promosse, definendo le manifestazioni “megafono di Israele”).
L’Anp ha quindi lanciato un appello ad Hamas ad “ascoltare il grido di sofferenza del popolo palestinese” e…. arrendersi, lasciare il governo della Striscia, farla finita con la resistenza e consegnare Gaza ai macellai sionisti.
È evidente che a guadagnare da questa prospettiva sarebbero solo gli imperialisti Usa e sionisti. Per la popolazione di Gaza si aprirebbero le porte della deportazione e dell’annichilimento. La lotta per la liberazione e per l’unità nazionale forgiata nella resistenza è la sola via positiva per il popolo palestinese.