Il punto sulla situazione politica
Il governo Meloni è assillato da cinque questioni di cui non riesce a venire a capo.
La prima è la matassa della situazione internazionale che, diciamo subito, per quante capriole e giravolte faccia non riuscirà a districare. L’effetto Trump ha aggravato una situazione già deleteria: che l’Italia del governo Meloni possa “fare da cerniera fra Usa e Ue” è un’affermazione a cui non credono nemmeno coloro che la spacciano.
Il governo Meloni, come anche l’opposizione e tutte le istituzioni della Repubblica Pontificia italiana, è spaccato in due: da una parte il partito americano, che opera per aggravare la sottomissione dell’Italia agli interessi degli Usa, e dall’altra il partito europeo, che risponde ai vertici della Ue.
Ad aggravare le cose c’è anche il fatto che la stessa Ue non è affatto un monolite e si sta disgregando fra il piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen e il “gruppo dei volenterosi” promosso da Macron per sabotare la tregua in Ucraina.
La seconda è rendere inoffensiva la magistratura o, per lo meno, isolare e disgregare quella parte che non si sottomette in silenzio alle riforme dettate dalle organizzazioni eversive e da quelle criminali.
È bene essere chiari: la magistratura italiana è a pieno titolo un’istituzione borghese e non ha alcun ruolo particolare nella difesa degli interessi delle masse popolari; lo scontro fra governo e magistratura è, interamente, uno scontro fra poteri concorrenti e fra fazioni della Repubblica Pontificia. Ma è la magistratura, oggi, l’unico gruppo di opposizione deciso a usare ogni strumento e ogni mezzo contro il governo Meloni. E infatti li sta usando quasi tutti: inchieste e procedimenti come siluri, scioperi e proteste di piazza, uso dei partiti di opposizione per prendere iniziativa politica (vedi la recente mozione di sfiducia contro Nordio che è stata respinta).
Finché il governo Meloni sarà in carica, o almeno fino a che non avrà disattivato Nordio, la magistratura cercherà di tenere il governo al guinzaglio. E non è escluso che decida di provare, se e quando ne avrà l’occasione, a trasformare il guinzaglio in un cappio.
La terza questione sono le lungaggini nell’approvazione e nell’entrata in vigore delle misure per limitare l’agibilità politica delle masse popolari, l’aumento della repressione.
L’argomento è di comune interesse per tutte le fazioni delle Larghe Intese (basta ricordare l’infame pacchetto sicurezza di Minniti, del Pd, che dal 2017 ha fornito la base a molti dei peggioramenti successivi), ma il governo Meloni ha fatto una specifica propaganda, ha preso impegni e dato rassicurazioni ai settori più reazionari della classe dominante, ha dato mandato ai questurini fascisti di mezza Italia di sbizzarrirsi e ha tolto il morso ai prefetti. Piantedosi crede di poter imporre coprifuoco e zone rosse, sono aumentati abusi polizieschi e arbitri, ma il governo non è stato in grado di portare a termine l’approvazione del ddl 1660. Non solo, è bastato violare in massa il divieto di manifestare il 5 ottobre 2024 a Roma per rimettere al loro posto le mezze tacche che si erano galvanizzate.
La maggiore repressione che il governo Meloni ha cercato di imporre si è tradotta solo in maggiore ribellione.
Il processo contro i tre partigiani palestinesi in corso a L’Aquila è un’ulteriore mina vagante per il governo e la sentenza del processo contro il movimento No Tav e l’Askatasuna, a Torino, è stato invece un plateale schiaffo in faccia.
La quarta riguarda le riforme che sono al palo. Il governo ne parla ancora, ma i toni sono più quelli di una minaccia che di una promessa, anche perché il governo stesso è spaccato su entrambe.
L’autonomia differenziata è appannaggio di una Lega allo sbando, e la riforma, rallentata dalla Corte Costituzionale che però l’ha anche salvata evitando il referendum abrogativo, dovrebbe ora ripercorrere in tempi record le tappe per essere approvata.
Il premierato è lo zuccherino che Meloni vorrebbe distribuire ai vecchi missini che le fanno da reggicoda in Fdi, ma non scalda il cuore neppure della parte democristiana del partito.
Partito con l’idea di cambiare la Costituzione, il governo Meloni dimostra di avere difficoltà anche a mettere d’accordo i suoi ministri (e non parliamo dei gruppi parlamentari) su cosa ordinare alla buvette.
La quinta e ultima questione riguarda il fatto che è arrivato il momento, anzi i tempi stringono, di saldare le cambiali distribuite come noccioline al momento dell’insediamento. Una, la più conosciuta e probabilmente anche la più gravosa, è quella del ponte sullo Stretto di Messina, ma ce ne sono altre, sia palesi che occulte.
Lo sa bene il Pd, come lo sapeva perfettamente Forza Italia: non si resta al governo promettendo alle organizzazioni criminali gli appalti per migliaia di metri cubi di cemento senza mantenere la parola.
Abbiamo scritto cemento, ma gli appalti riguardano un po’ tutto e, anzi, il governo Meloni si è distinto per aver stretto accordi sottobanco con Musk riguardo alla politica spaziale italiana e per un investimento “piccolo piccolo”, di 200 milioni di euro, nella start up del nucleare “Newcleo”. Peccato che nel primo caso siano state violate tutte le procedure e nel secondo sia stato violato anche il risultato di un referendum…
Clima da fine impero. È quello per cui non passa settimana senza una rissa fra esponenti del governo. Quello per cui Meloni stessa è costretta a spacciare il Manifesto di Ventotene per la Costituzione sovietica per alzare un po’ di polverone, quello per cui i media si nutrono delle bugie di Romano Prodi che nega di aver preso per i capelli una giornalista. Fuffa, insomma, per coprire le magagne, le contraddizioni, le misure antipopolari e la spirale che trascina l’Italia nella Terza guerra mondiale. Fuffa avariata anche per la campagna elettorale già in corso.
A fine maggio si svolgeranno le elezioni amministrative in un numero esiguo di comuni e in autunno – ma la data è da definire – si svolgeranno le regionali in Toscana, Veneto, Campania, Puglia, Marche e Val d’Aosta.
L’8 e il 9 giugno si vota per i referendum (quattro per abrogare parti del Jobs Act e uno per ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza per ottenere la cittadinanza italiana).
In questo contesto, il governo Meloni è recentemente entrato nella classifica dei cinque governi più longevi nella storia della Repubblica Pontificia. Non per efficacia o “buon governo”, ma per la combinazione di due fattori: il primo è che i vertici della Repubblica Pontificia non hanno ancora trovato un’alternativa per sostituirlo e il secondo, il principale, è che la mobilitazione delle masse popolari non è ancora abbastanza sviluppata da approfittare delle contraddizioni e delle difficoltà della classe dominante per cacciarlo.
Questo secondo aspetto è quello da alimentare, poiché è l’unica strada per evitare che il governo Meloni sia sostituto da un altro governo delle Larghe Intese, di un altro colore, ma con lo stesso programma.
Rendere ingovernabile il paese per imporre il Governo di Blocco Popolare. Sviluppare la mobilitazione dei lavoratori e delle masse popolari su quelle che SONO GIÀ “le questioni spinose” con cui il governo Meloni deve avere a che fare e sviluppare la mobilitazione sulle questioni che sono invece spinose per le masse popolari (dalla lotta al carovita a quella per la sanità pubblica, passando per scuola e università, fino alla manutenzione dei territori) fino a farne una questione di ordine pubblico, cioè un’altra questione politica per il governo Meloni e per tutte le Larghe Intese.