Sul numero scorso di Resistenza abbiamo dedicato una pagina alla campagna sull’uso del materialismo dialettico che il P.CARC sta conducendo per elevare l’attività dei quadri e dei membri nella lotta per il Governo di Blocco Popolare.
Di seguito pubblichiamo due lettere che entrano nel vivo di alcuni aspetti in modo molto concreto.
La Redazione invita i membri del Partito a portare la propria esperienza: ciò non solo arricchisce la campagna, ma permette anche a tanti compagni, che lavorano per la rinascita del movimento comunista nel nostro paese, di comprenderne il senso pratico.
Passare all’attacco
Alla riunione di bilancio che si è svolta subito dopo la Festa nazionale della Riscossa Popolare a Napoli [29 e 30 settembre – ndr] una compagna ha fatto un intervento che ha attirato subito la mia attenzione perché inizialmente credevo che l’argomento non attenesse al tema della discussione.
Ha esordito dicendo: “spesso affermiamo che non dobbiamo limitarci a resistere, ma che dobbiamo passare all’attacco e mi sono interrogata spesso su cosa volesse dire”.
Mi aspettavo un intervento molto generale e astratto, invece ha parlato della sua esperienza in un comitato popolare del territorio e ha concluso che passare all’attacco è una questione di testa, non di azioni che si fanno o non si fanno; dipende dalla testa che mettiamo nelle cose che facciamo, dipende dalla concezione che ci guida nel farle.
Mi sono ritrovata molto nelle sue parole, perché ha parlato di questioni che riguardano anche me.
Per prima cosa, nel comitato per la sanità pubblica in cui intervengo, per molto tempo mi sono preoccupata che la linea del Partito fosse conosciuta, che fosse chiara e prevalesse. Mi sono accorta che il modo con cui curavo questi aspetti finiva col mettermi nella condizione di voler avere tutto sotto controllo e di fare da tappo alle tendenze positive che esistevano e avevano bisogno di spazio e di cura per emergere e svilupparsi.
Quindi ho iniziato a prestare più attenzione al contenuto dei ragionamenti che fa chi non è del P.CARC, chi non si riconosce nell’obiettivo del Governo di Blocco Popolare o non è affatto convinto che gli organismi operai e popolari debbano diventare e operare da nuove autorità pubbliche.
Ecco, mi si è aperto un enorme campo di intervento: se ci concentriamo sul contenuto dei ragionamenti e delle proposte anziché sulla forma con cui vengono espressi, emergono molto chiaramente le tendenze spontanee che da comunisti dobbiamo coltivare e sviluppare per costituire il Governo di Blocco Popolare.
Seconda cosa: ho smesso di accentrare tutti i compiti e le responsabilità su di me. Lo facevo in maniera quasi automatica per “sostenere lo sviluppo dell’organismo”, ma sono arrivata alla conclusione che la mia era una forma di sfiducia verso gli altri. Se l’organismo deve diventare una nuova autorità pubblica, allora deve fare il suo percorso, affrontare i problemi, risolverli con le forze a sua disposizione, deve imparare. Ho smesso, quindi, di essere il baricentro di tutte le attività!
Ho iniziato da cose piccole e apparentemente poco significative: i verbali delle riunioni, la stesura della bozza di volantino, ecc. Anche in questo caso che cosa ho trovato? Soprattutto disponibilità, voglia di cimentarsi, di imparare. E quand’anche esiste la volontà di qualcuno di emergere e affermarsi, ciò avviene in un contesto prevalentemente sano, per un motivo valido: quello che fuori dall’organismo potrebbe essere considerato spirito di concorrenza, al suo interno diventa invece un mettersi al servizio.
(…) Sono perfettamente consapevole che stiamo parlando di piccolissime cose nel marasma in cui siamo immersi, ma ho trovato illuminante il discorso della compagna a Napoli perché mi ha dato lo spunto per indirizzare meglio il mio lavoro e dedicare tempo ed energie all’elaborazione, all’orientamento e alla formazione dei membri del comitato. Ho elevato la qualità del mio lavoro, diciamo. E questo mi permette di capire meglio anche cosa significa “dipende da noi”.
FR
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Curare l’inquietudine
Parlo di un primo risultato della campagna sull’uso del materialismo dialettico.
Anche se è appena iniziata, mi ha dato la possibilità di riflettere sul perché fossi tanto inquieto, con tutto quello che da questo deriva: l’essere discontinuo nell’attività politica, meno puntuale e affidabile rispetto ai compiti che il collettivo mi affida, sempre più “rinchiuso” in una mia dimensione individuale e reticente a svolgere attività di propaganda o a partecipare alle iniziative.
Nonostante non abbia mai messo in discussione la mia “fede” comunista, il peso degli effetti della crisi su di me, sulla mia famiglia e il resto delle masse popolari ha iniziato a soffocarmi. Vedere le ingiustizie e sentirmi impotente ha iniziato a opprimermi.
Non trovavo un senso concreto e immediato nell’attività della Sezione, anzi a essere sincero non vedevo il senso di “lavorare alle condizioni per il Governo di Blocco Popolare” mentre tutto va a rotoli e ci troviamo in quattro, in cinque o se va bene in otto a discutere nelle riunioni di Sezione. Devo dire che, a un certo punto, mi sembrava tempo perso.
La segretaria di Sezione mi ha fatto notare due cose che mi hanno dato “una scrollata”.
La prima è che il mio approccio verso la realtà e verso il mio stato d’animo era moralista. Severo e intollerante verso le mie inadeguatezze e limiti, ma senza che nemmeno provassi a individuare la strada per trattarli, oltre che vederli e sentirne il peso.
La seconda è che il problema sta nella mia concezione del mondo. Non basta definirsi comunisti per avere la concezione comunista del mondo e usarla. Infatti non la usavo.
Vedevo “da comunista” i problemi e le ingiustizie, ma pretendevo di affrontarli e risolverli al modo di un elemento avanzato delle masse popolari. Ma se io, comunista, mi attesto al livello di un elemento avanzato delle masse popolari commetto un doppio errore: vengo meno al ruolo di promotore e organizzatore della lotta per il socialismo e tolgo agli elementi avanzati la possibilità di avere nei comunisti un punto di riferimento.
In sintesi, stavo cercando una scorciatoia. E l’avevo trovata: professarsi comunista, mettersi alla coda degli eventi e tifare per la rivoluzione. Cioè essere uno spettatore che non prende parte alla lotta di classe e non se ne assume la responsabilità. Era una soluzione? No. Era un modo per amplificare gli effetti delle sabbie mobili in cui ero finito.
Inizia la campagna sul materialismo dialettico. Io da solo non avrei fatto un passo, ma il collettivo mi ha “preso di peso”: mi ha spinto a studiare, ma soprattutto mi ha costretto a pensare da comunista.
Dopo il 7 ottobre è iniziata la rappresaglia dei sionisti contro il popolo palestinese: la tendenza alla guerra promossa dagli imperialisti ha fatto un salto di qualità. I sionisti stanno massacrando i civili palestinesi, una strage di bambini.
Un primo bivio, per me. Sono un ribelle che tifa per la resistenza palestinese dall’Italia? Sono un attivista che si spende nelle mobilitazioni e nelle manifestazioni? Sì, sono un po’ tutti e due. Ma sono soprattutto un comunista che ha ragionato sui suoi compiti.
Se vogliamo dare un contributo concreto ed efficace al popolo palestinese, allora bisogna spezzare la catena dell’imperialismo, facendo leva sul suo anello debole. Bisogna togliere i servi della Nato e dei sionisti dal governo dell’Italia e bisogna fare dell’Italia un paese che sostiene il popolo palestinese.
Avere questa consapevolezza non mi dà pace, ovviamente. Ma cura l’inquietudine che è invalidante, fa perdere slancio, lucidità, passione, spinta rivoluzionaria e spinge verso la diversione dalla lotta di classe e l’abbrutimento.
Ci ho ragionato: i risultati immediati del nostro lavoro non sono il metro di misura dell’efficacia del nostro lavoro. I risultati immediati possono essere vittorie che consolidano le posizioni che via via conquistiamo, ma nel capitalismo ogni vittoria è passeggera, oppure è sconfitta da cui impariamo attraverso il bilancio. La nostra opera ha però i tempi propri della storia umana, non quelli della nostra reazione agli avvenimenti.
Non siamo solo ribelli, siamo rivoluzionari.
AF