Lettera di un lavoratore precario
Cari compagni sono un operaio precario e militante del P.CARC. Nel corso dell’ultimo anno ho fatto alcune piccole esperienze di organizzazione sul mio posto di lavoro che penso possano essere utili a chi vive le mie stesse condizioni e che perciò riassumo in questa lettera.
Nel nostro paese più di 3 milioni di persone lavorano con contratti a termine, a progetto o stagionali. Un esercito di lavoratori precari di ogni genere ed età, dalle fabbriche dei grandi centri industriali alle strutture di servizio turistiche, schiacciati dal ricatto del contratto a termine o del lavoro nero.
L’apertura della stagione turistica, combinata con l’avanzare repentino della crisi economica, aggrava ulteriormente la situazione, soprattutto nei settori del turismo e dei servizi, storicamente meno sindacalizzati.
Il ricorso massiccio al lavoro precario, però, colpisce anche i lavoratori con contratto fisso. La presenza di precari in un’azienda, grande o piccola che sia, spacca in due il gruppo.
Chi tenta di mobilitarsi in un’azienda dove ci sono precari sbatte la testa contro il fatto che questi, soggetti a licenziamenti arbitrari che non sono neppure riconosciuti come licenziamenti, difficilmente partecipano a uno sciopero, a un’assemblea o a qualunque iniziativa possa esporli agli occhi del padrone.
Questa situazione può essere affrontata positivamente solo a condizione che i lavoratori precari si organizzino. E che lo facciano indipendentemente dal fatto che i lavoratori a tempo indeterminato siano già organizzati e magari spingano per coinvolgerli.
Certo, se già esiste un’organizzazione di lavoratori a tempo indeterminato le cose sono più semplici, ma senza una specifica organizzazione dei lavoratori precari la contraddizione di fondo rimarrà irrisolta e, presto o tardi, l’azienda troverà il modo di far fuori tutti i più attivi e sostituirli, in modo da stroncare qualsiasi iniziativa e qualsiasi legame fra lavoratori precari e lavoratori stabili.
La prima cosa che pensi se sei un precario stanco della tua condizione e desideroso di cambiarla è “sarebbe bello, ma gli altri non si mobilitano”, oppure “se mi espongo, non duro due secondi e mi licenziano, mi fanno mobbing e via dicendo”. Considerazioni come queste sono del tutto comprensibili. Ed è vero che non si trovano subito decine di colleghi disposti a dare battaglia. Ma per coinvolgere altri a dare battaglia, è necessario aver chiaro dove si vuole andare a parare…
La prima questione è che per poter arrivare a mobilitare un gruppo di lavoratori c’è bisogno di una base organizzativa anche minima, che può nascere sull’onda di una mobilitazione, ma che può essere creata anche quando sembra che niente si muova. Come promuovere l’organizzazione?
Non esiste una ricetta per tutti. Il primo passo, necessario, è imparare a tessere relazioni tra colleghi, confrontarsi sulle difficoltà e le soluzioni per superarle; serve incontrarsi fuori dal posto di lavoro per parlare liberamente, serve tenersi aggiornati su quello che succede sul posto di lavoro e fare inchiesta sulle mosse dell’azienda.
Già questo crea un primo legame di solidarietà e sbarra la strada alla guerra tra poveri.
Creare un gruppo organizzato è un lavoro lento, faticoso e i risultati sono poco visibili nell’immediato, ma è un lavoro indispensabile che permette di sedimentare qualcosa che rimane al di là delle specifiche situazioni di partenza.
A questo va aggiunto che spesso i precari sono soggetti a turn over continuo e a cambiare posto di lavoro da un mese all’altro. Per questo l’organizzazione può essere anche territoriale o di distretto produttivo, di quartiere. In questo modo i passi compiuti non saranno azzerati una volta che si cambia posto di lavoro e la costruzione dell’organismo può continuare anche se si è finita la stagione o si è in disoccupazione o si è cambiato posto di lavoro.
La seconda questione è che per organizzarsi non serve esporsi sul posto di lavoro e, anzi, a volte esporsi è controproducente.
Non dobbiamo mai sottovalutare quello che facciamo: anche se da solo, un lavoratore che si organizza terrorizza i padroni. Quindi è normale che per i dirigenti, per i padroni, e a volte anche per i sindacati, ogni forma di organizzazione o mobilitazione fuori dal loro controllo sia percepita come una minaccia alla loro proprietà e al loro potere.
Quindi serve ragionare “come se si volesse sfondare la Mercedes del capo parcheggiata davanti a lavoro con un cric”. Sicuramente bisognerebbe farlo di nascosto.
Va abolito quindi il “devi metterci la faccia”: è un principio moralista e inutile a cui si appellano quelli che hanno interesse a tenere a bada i lavoratori!
Per tradurre questi principi nel concreto, porto un esempio, anche se ho già detto che non c’è una ricetta valida per tutti. Si può partire da un comunicato anonimo di denuncia delle condizioni di lavoro. E ritrovarsi (fuori dal lavoro) per fare inchiesta su quali contratti ci sono in azienda, su quali agenzie interinali vi operano, su quali trucchi adotta la direzione per aggirare i limiti imposti dal Contratto nazionale su sicurezza, su orari e retribuzione, oppure per rendere pubblico l’operato dei sindacati se ci sono, ecc.
Una volta raccolte le informazioni, si prepara una lettera con una firma generica tipo “un gruppo di lavoratori” e la si invia ai giornali locali e nazionali.
Per quello che ho potuto vedere, almeno uno la pubblica sempre. Poi si prende l’articolo, a quel punto pubblico e lo si fa girare tra i contatti e nelle chat dei colleghi di lavoro.
È un’iniziativa piccola e alla portata di tutti. A quel punto ci sarà un embrione di lavoratori organizzati, gli eventuali sindacati dovranno occuparsi della faccenda per non perdere la faccia e l’azienda metterà in conto che ogni operazione che farà, può essere resa pubblica.
L’azienda, e a volte anche il sindacato, avvierà la “caccia all’uomo” e per un po’ starà in fissa per trovare i responsabili. Per questo è importante circondarsi solo di colleghi e persone fidate.
Con un po’ di attenzione, in poco tempo, lo starnazzare degli accusati diventerà ottimo materiale per un secondo comunicato! Provare per credere!
Lettera firmata