[Italia] Riflessioni di una compagna sul femminismo borghese

Trasmettiamo le riflessioni di una compagna inviate all’Agenzia Stampa “Staffetta Rossa” a seguito della pubblicazione dell’articolo [Italia] Rula Jebreal, il femminismo borghese, il femminismo proletario contenente la lettera arrivata alla redazione sul monologo tenuto dalla giornalista e scrittrice palestinese ospite allo scorso Festival di San Remo.

Nella sua lettera Edda pone una questione interessante, affermando che sostanzialmente il fatto che la contraddizione di genere è presente anche all’interno della borghesia (ha citato il caso mee too) indicando il capitalismo come figlio prediletto del patriarcato. E’ davvero così? E’ vero che la diseguaglianza di genere affonda le radici anche più indietro del capitalismo, essa attiene alla divisione del lavoro che l’umanità si è data durante il suo sviluppo[1], divisione del lavoro sulla cui base si è sviluppata la divisione dell’umanità in classi sociali. Si è trattata, al pari della divisione della società in classi, di una necessità pratica dell’umanità per fronteggiare la lotta contro la natura in cui era immersa per darsi i mezzi della produzione e riproduzione della sua esistenza.

Ma così come la divisione in classi, anche la contraddizione tra uomo e donna, con l’avvento del capitalismo, è storicamente superata. È una contraddizione, però, che per essere superata necessita che anche la divisione in classi venga superata, senza questo, anzi, essa non potrà essere mai superata. Questo perché la società borghese si fonda ancora sulla divisione in classi e non potrà mai essere l’ambito in cui la contraddizione di genere troverà superamento di prospettiva e di lungo periodo (vedi l’attuale e progressivo ritiro di diritti che le donne hanno conquistato nei decenni scorsi, quando il movimento comunista era forte in tutto il mondo).

È vero, quindi, quello che dice Edda, la contraddizione di genere la vivono, in condizioni materiali e diritti certamente diversi, anche le donne della borghesia? L’oppressione di genere è certamente alimentata dal sistema capitalista e dalla natura reazionaria che questo oggi possiede ma la differenza sostanziale sta però nel ruolo sociale. Le donne della borghesia per quanto possano subire episodi che le facciano apparire come “oppresse” dagli uomini della loro classe, esercitano un ruolo di oppressione e sfruttamento tanto sulle donne quanto sugli uomini delle masse popolari, un ruolo che cerca di impedire lo sviluppo dell’umanità, di impedire che ciò che è storicamente superato sia effettivamente superato (la divisione in classi e di conseguenza la contraddizione di genere). Le parole di emancipazione femminile e le dichiarazioni di lotta all’ingiustizia da parte di queste donne si affiancano al loro ruolo di preservazione dello stato di cose presenti. Questa è una differenza imprescindibile di cui tenere conto e su cui è utile ragionare quando si parla del femminismo di donne alla Jebreal.

A San Remo la Jebreal ha raccontato la toccante storia degli abusi subiti dalla madre quando lei era ancora una bambina, affermando poi la necessità per le donne di essere lasciate libere dagli uomini nel fare le proprie scelte, dire la propria senza dover stare un passo in dietro. Un discorso da cui emerge che l’emancipazione femminile è una concessione del maschio verso le donne e non una questione sociale vincolata all’eliminazione della divisione della società in classi tipica della società capitalista, dove qualsiasi lotta per l’emancipazione della donna è destinata a soccombere prestando il fianco all’acuirsi delle contraddizioni tra masse popolari e masse popolari, nello specifico tra uomini e donne.

L’avanzare della crisi non lascia di certo presagire un miglioramento della condizione delle donne delle masse popolari, che oggi subiscono una doppia oppressione, di genere e di classe, ma anzi! La violenza fisica è solo un aspetto legato all’oppressione subita tra le mura domestiche e quella perpetrata dal sempre più massiccio smantellamento dei servizi volti alla cura e all’educazione dei figli. Oggi gli attacchi più violenti che le donne sono costrette a subire avvengono sul posto di lavoro ad opera dei padroni che spesso le escludono anche solo per il semplice e naturale desiderio di avere dei figli o le licenziano nel processo di smantellamento del tessuto produttivo a vantaggio del profitto. Non avere una indipendenza economica vuol dire chiudere le porte a qualsiasi contributo della donna alla trasformazione dello stato di cose presenti, alla trasformazione della sua condizione sociale che oggi la relega a trovare un senso alla propria vita nella costruzione di una nicchia felice nella quale vivere con la propria famiglia.

È la borghesia a relegare le donne in questo stato di precarietà e sottomissione, aggravato nel nostro paese dalla presenza del Vaticano che mettendo al centro la sua concezione patriarcale e maschilista relega da millenni la donna a percepire e trattare l’uomo come un capo da soddisfare e a cui sommessamente obbedire in una posizione di retroguardia.

Di tutto questo la Jebreal non ha parlato. Nel suo monologo, proteso ad incoraggiare il genere femminile a lottare per la difesa dei propri diritti, delle proprie libertà, contro la violenza ecc… si è “dimenticata” di dire alle donne delle masse popolari quale è il vero nemico contro il quale serve organizzarsi e combattere per conquistare gli obiettivi dei suoi proclami.

Per risolvere l’oppressione di genere non bisogna lasciarsi ingannare dall’intossicazione promossa dalla borghesia con discorsi alla Jebreal che non è certamente una donna delle masse popolari, come non lo sono la Meloni o la Boschi. Loro hanno le disponibilità economiche per ottenere i diritti di cui spesso si ergono come paladine. Possono abortire in strutture private dove l’obiezione di coscienza si può comprare o curarsi nei migliori ospedali, possono far fronte alle necessità educative dei propri figli scegliendo le scuole più prestigiose, come hanno la possibilità di abitare case più dignitose e risparmiarsi il rischio di viaggiare su mezzi pubblici fatiscenti o attraversare zone degradate… tanto hanno l’autista.

La verità è che malgrado gli attestati di solidarietà e le raccolte fondi, la creazione di enti e i grandi discorsi televisivi o libri scritti, le donne della borghesia si trovano dall’altro lato della barricata e in questa società concorrono al pari degli uomini, se non di più, a portare avanti politiche volte a rendere ancora più stringente lo sfruttamento e l’oppressione delle donne, ma anche degli uomini delle masse popolari. Sventolano la bandiera dell’uguaglianza e della parità dei diritti ma sono le prime a ridurla a brandelli quando farlo vuol dire incrementare i profitti.

Per rompere le catene della doppia oppressione, di genere e di classe, è necessario dunque che il movimento comunista incoraggi e promuova la mobilitazione, la sperimentazione delle forme di lotta e di organizzazione delle donne delle masse popolari che intendono dare battaglia per la difesa dei propri diritti, così da legarle alla lotta per l’instaurazione di un nuovo ordine sociale.

Solo con la costruzione di una società socialista e il superamento della divisione in classi dell’umanità si elimineranno le discriminazioni di genere. È con il socialismo che comincia la vera emancipazione! Perché è l’unica società che pianta le proprie radici sull’organizzazione e sulla partecipazione della classe operaia e delle masse popolari alla gestione dell’apparato economico del paese e della società nel suo complesso.

Sarà lo stato socialista a mettere in campo ogni misura utile e necessaria a garantire la partecipazione delle donne alla vita sociale lungo la strada per liberarsi definitivamente anche dall’oppressione degli uomini.

Buona lettura

***

Bergamo 11/02/2020

Ho ascoltato più con curiosità che con aspettative il discorso di Rula Jebreal e nell’ascoltare la storia della madre abusata sin da bambina, ho pensato che Rula Jebreal è stata una donna coraggiosa nel parlare e denunciare le violenze, proprio e anche per il ruolo di donna di spettacolo e appartenente ad una classe sociale ben lontana da noi.

Il movimento “me too” è considerato parte di questa borghesia, che vive in un mondo di celluloide, a noi tanto lontano, ma ha avuto il merito di evidenziare e riunire alcune tematiche che sono e non possono essere che di genere.

Gli abusi perpetrati in casa, per le strade, nei luoghi sociali di ogni connotazione politica, sui posti di lavoro, che siano fabbriche o set cinematografici o uffici di dirigenza o scrivanie di presidenti, sono l’imposizione del potere patriarcale che sicuramente ha una visibilità e un impatto diverso a seconda della classe di appartenenza, ma resta una violenza agita dal macismo contro un genere altro.

Chi subisce deve avere il coraggio di accusare il proprio aguzzino a qualunque classe sociale appartenga.

Per capire perché gli uomini non si pongano il problema della loro facile aderenza al modello patriarcale forse   bisognerebbe che gli stessi si facessero qualche domanda: osservare la propria esperienza e confrontarsi con altri per capire dove sta il problema.

Perché il problema non siamo noi, non esiste una questione femminile, ma maschile.

È la maggior parte di loro a essere attaccata al potere ed usarlo da secoli, in casa e fuori e vi garantisco che non è una questione di classi sociali, il potere patriarcale non è solo il “padrone”, maschio o femmina che sia.

Se molte cose sono cambiate non è per concessione maschile, ma perché le donne si sono ribellate e hanno cominciato a pretendere, chiedere, occupare posti.

Le donne hanno preso voce, posto una questione politica e continuano a farlo, mettendo in discussione non solo la struttura patriarcale della società, ma anche il sistema capitalistico (figlio prediletto) e finanziario che governa le esistenze di tutti, anche quelle dei maschi.

Ma quando i maschi pensano di iniziare la loro rivoluzione?

Siamo tutte e tutti vittime di una cultura che considera la prevaricazione e la violenza come aspetti della relazione tra un uomo e una donna, che vede maschi e femmine imprigionati in ruoli rigidi, legittimati da una società patriarcale.

Il delitto d’onore in Italia è stato abolito solo nel 1981 e non per concessione di qualche governo più o meno amico, ma per le lotte delle donne tutte, un’unità che ha portato in piazza disoccupate, casalinghe, operaie e donne della classe borghese; come pure per il divorzio e per la legge sull’aborto: delitto d’onore e aborto corrispondevano a morte impunita perché era la “colpevole “ a morire, comunque e sempre per mano di un uomo  spesso il proprio “compagno”, che a volte coincideva con il proprio stupratore.

Il primo femminismo era la richiesta di parità di diritti civili (diritto al voto, parità di salari per pari lavoro).

Richiesta di diritti trasversali su qualunque classe, ma uguali per genere perché erano le donne a cui mancavano questi diritti.

La parola femminicidio non descrive solo il fatto, ma la parola femminicidio dice chiaramente il movente dell’omicidio: ovvero essere donna, l’appartenenza ad un genere anziché ad un altro.

Cinque donne uccise in due giorni. Non è un’emergenza

È l’esito di una cultura delle relazioni tra i sessi 

L’esito di una cultura rimasta intatta nei programmi scolastici, nella ricerca universitaria, nei posti di lavoro dove dobbiamo sempre dimostrare qualcosa in più; nell’accudimento e nell’assistenza gratuita alla famiglia.

Una cultura che persiste quando si decreta l’inutilità del femminismo e alle donne si propone un’emancipazione paritaria, cioè pari all’ uomo, come se fosse un modello da imitare e non il frutto di un modello patriarcale da superare; in nome di una libertà che sembra raggiunta solo perché strappati alcuni diritti civili e sociali e declinata alle giovani a cui viene proposta la mercificazione del corpo come momento massimo di quella libertà di disporne. 

Donne dimenticate dalle donne stesse, per ignoranza, sottovalutazione, asservimento inconsapevole alla cultura del dominio maschile, persino quando si scende in piazza in nome di rivendicazioni sindacali e salariali. Tanti anni di lotte politiche (e parlo anche per mia esperienza) asessuate che riproducono le stesse dinamiche patriarcali, troppo spesso siamo miopi nel non cogliere le necessità e la diversità di condizione.

Nel mantenimento del modello capitalista che chiamano sviluppo, che genera morte di donne e uomini schiavizzati, della terra stessa ingoiata dallo sfruttamento selvaggio, la rapina delle risorse, i focolai di guerra alla ricerca di una accumulazione capitalista che non può che generare morte e distruzione.

Noi donne sappiamo che i femminicidi, la violenza domestica, il mobbing sul lavoro, l’espulsione del corpo femminile dalle contrattazioni, richiedono la svalutazione di noi stesse e della nostra possibile determinazione collettiva, sino ad un’attiva e inconsapevole complicità.

La cultura sessista scatta nei programmi scolastici nell’apprendimento infantile, nei media, nei social, nella cultura raffinata, nelle sedi politiche, come nelle battute da bar; tanto che se una donna fa notare i linguaggi e/o gli stereotipi usati risulta pesante, antipatica, vetero, ecc.

La narrazione del maschile, unisce gli uomini al di là delle idee, delle posizioni politiche, delle condizioni sociali; perfino nelle condizioni di scontro e di guerra gli uomini vengono rappresentati, nello stesso modo, dentro un quadro che raffigura il maschile e trasmette una cultura che li rende uguali (pensiamo agli stereotipi di genere, sino allo stupro come arma di guerra perpetrata da ogni esercito).

Non fanno eccezione gli assassinii di donne nell’informazione, è l’unico reato dove la vittima ha sempre una qualche responsabilità e l’omicida ha sempre un “attenuante” (lei lo voleva lasciare, era troppo bella e lui era geloso, lo tradiva ecc.).

Nei processi per stupro è ancora una volta la vittima che deve dimostrare di aver fatto di tutto o non essersi messa nella condizione di provocare il reato.

Per le donne esiste solo una narrazione sminuente: invisibile nella storia: dove sono le donne nei libri di testo? Cosa facevano le donne nelle guerre e nelle conquiste? Nella scuola elementare il “ratto delle sabine” è presentato come una necessità di un popolo di riprodursi e non come stupro di guerra; la narrazione di donne straordinarie in cui ancora una volta la donna o è angelo (es. gli angeli del coronavirus;)o si chiede come concilia il lavoro con i figli; a quanti uomini viene chiesto come concilia il lavoro domestico con la propria professione?

Oggi ci raccontiamo che c’è un’avanzata delle donne perché ne ritroviamo alcune ai vertici della politica, dell’industria, delle carriere accademiche, della ricerca scientifica o nella magistratura, nella dirigenza di scuola, sanità, pubblica amministrazione.

Se ci sono devono ringraziare una femminista!

Perché le generazioni di donne del secolo scorso e non solo, hanno lottato per la tutela di gravidanza e del parto, per diritti dell’infanzia, per la parità nel lavoro, per il diritto all’autodeterminazione del corpo, per il diritto all’aborto, erano e sono priorità non date per scontate ma che vanno continuamente difese: “non dimenticate mai che è sufficiente una crisi politica o religiosa per mettere in discussione i diritti delle donne. Questi diritti non sono acquisiti per sempre” (S.De Bevouire).

Ma queste conquiste quale effetto possono avere sulle vite delle badanti, delle raccoglitrici di pomodori, delle operaie, delle addette ai servizi della distribuzione, e di mille altre categorie comprese le donne senza occupazione retribuita?

Sono state e sono importanti ed irrinunciabili, ma non possono essere scisse dalla necessità di potersi e sapersi consapevolmente raccontare con la propria storia, la propria intelligenza, il proprio essere e il proprio corpo, per questo ben vengano le denunce di tutte coloro che rivendicano il diritto di vivere senza negare il loro essere.

Siamo tutte uguali? No non lo siamo, le classi sociali esistono e le differenze pure, ma c’è un nemico che va eliminato e per ora siamo le uniche che vogliamo combatterlo nella consapevolezza e nella gioia della nostra diversità, possiamo e dobbiamo continuare a batterci sul lavoro e in ogni luogo, per il miglioramento di tutte e tutti e il superamento di questo sistema economico e sociale.

E l’altro genere? Bè forse è il momento che il genere maschile decida da che parte stare…… sempre, tocca a loro cambiare sé stessi.

Noi abbiamo fatto e facciamo molto …per tutte e tutti e ora siamo occupate a continuare e fare altro tra cui rivendicare il diritto a vivere.

Edda

[1] “Nelle società primitive la divisione del lavoro era legata al sesso e all’età, grossomodo come avviene ancora oggi nelle specie animali superiori. Da qui spontaneamente (ossia senza che gli uomini avessero coscienza di quello che, spinti dalle condizioni pratiche della loro esistenza, stavano in realtà facendo) si sviluppò la divisione del lavoro tra individui e gruppi all’interno di ogni singola comunità. Essa si impose perché rendeva più produttivo il lavoro. Un gruppo di uomini o di donne svolgeva permanentemente una specifica attività e aveva determinati rapporti con gli altri gruppi. Con la divisione sociale del lavoro e i rapporti che l’accompagnavano nelle condizioni primitive in cui sorse, si sviluppò il possesso privato dei mezzi e delle condizioni della produzione, in primo luogo l’uso privato della terra e del bestiame. Questo gradualmente sostituì l’uso in comune. I rapporti sociali gradualmente si svilupparono fino al punto in cui alcuni individui non partecipavano più alla produzione delle condizioni materiali della loro esistenza. Essi svolgevano unicamente attività da cui restavano esclusi gli altri membri della società e vivevano del prodotto del lavoro di questi. Questo sviluppo interno alla comunità si combinò con le relazioni di saccheggio, di rapina e di sottomissione tra comunità. La combinazione dei due processi portò alla divisione in classi nelle singole comunità. Nacquero così le società divise in classi” [Capitolo 1.2 del Manifesto Programma del (n)PCI].

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