[Internazionale] Colombia: “il ritorno alle armi” delle FARC

Giovedì 29 agosto 2019 il Comando dissidente delle FARC composto dai combattenti Iván Márquez, Jesús Santrich e El Paisa nel bel mezzo della selva colombiana con la presenza di una ventina di guerriglieri hanno dichiarato la ripresa della lotta armata, rigettando la farsa legale dei truffaldini “Accordi di pace” siglati nel 2016 all’Avana con lo Stato colombiano, sinora rimasti lettera morta. Tutti e tre – rappresentanti della guerriglia ai tavoli di discussione con le autorità governative sotto l’auspicio di Cuba, Venezuela e Norvegia – hanno riconosciuto apertamente di aver commesso un grosso errore, ripetendo lo stesso meccanismo degli anni Ottanta durante l’esperienza elettorale dell’Unione Patriottica: scendere a patti con il proprio aguzzino, abboccando alle declamazioni delle istituzioni che avrebbero implementato gli accordi, favorendo la riforma agraria integrale, il reinserimento nella vita collettiva degli ex combattenti attraverso percorsi di formazione lavorativa, la sostituzione delle coltivazioni illecite di coca, redistribuzione più equa della ricchezza nazionale, riforma educativa, accesso universale alla sanità e il compimento dei più essenziali diritti umani.

Da tre anni a questa parte, 150 ex guerriglieri inseriti nella Giurisdizione speciale per la pace (JEP) e circa 500 leader popolari e progressisti sono stati trucidati per aver difeso la dignità delle comunità di appartenenza (tra cui quelle indigene), l’integrità dei terreni da cui ricavavano il loro sostentamento, le loro famiglie, la loro stessa vita, alimentando l’autorganizzazione che in quei territori sempre più contendeva il dominio della borghesia parassitaria, mirando alla costruzione di una Colombia a misura di uomini e donne delle masse popolari, un paese centrato sulla giustizia sociale e la solidarietà.

Il ritorno alle armi, dunque, potrebbe ridare una boccata d’ossigeno alle comunità indigene e afrocolombiane, ai movimenti popolari e progressisti in difesa della terra, ai contadini impoveriti dal terrorismo economico e politico attuato da bande paramilitari di estrema destra e dalle politiche di smantellamento della già ridotta proprietà comunitaria che in alcune aree del paese sopravvive (come nei dipartimenti del Cauca, Norte de Santander, Caquetá e Chocó).

Ripercorriamo brevemente alcune tappe essenziali della loro attività rivoluzionaria.

Per comprendere le origini della guerriglia colombiana bisogna andare più indietro nel tempo, al tempo dell’assassinio del candidato presidenziale liberale Jorge Eliécer Gaitán: un avvocato noto a tutti come difensore  dei bananieri e contadini poveri, un dirigente di origini popolari e di orientamento progressista. Dopo questo assassinio orchestrato nell’ambito del terrorismo di Stato, nel 1948 nelle strade della capitale Bogotá si riversarono migliaia di manifestanti che, stanchi di subire la guerra di sterminio dell’oligarchia e spinti a porre fine alla catastrofe sempre più incombente sulla vita collettiva del Paese, misero a ferro e a fuoco la città: un evento che passerà alla storia con il nome di Bogotazo.

Da quel momento in poi, insurrezioni armate spontanee si produssero in tutto il paese; la Colombia è, a partire dalla metà del secolo passato, il paese con il numero più elevato di eliminazioni fisiche di sindacalisti, dirigenti antifascisti, comunisti e sinceri democratici al mondo. Importante evidenziare, quindi, che lo stragismo e tensione pianificati dalla borghesia colombiana, appoggiatasi sul sistema di controllo territoriale dei potenti latifondisti in collaborazione con gli imperialisti USA (USAID, DEA ed altri programmi controrivoluzionari e deputati a mantenere il dominio della borghesia), provocarono nel 1984 l’eliminazione di circa 5000 militanti popolari che aderirono all’Unión Patriótica – formazione politico-elettorale prodotto dei primi tentativi di accordo pacifico tra le due parti in conflitto – e tra questi quattro erano candidati alla presidenza della Repubblica, senza contare altre decine di migliaia di desaparecidos e centinaia di fosse comuni rinvenute in tutto il territorio nazionale. Insomma, uno dei più cruenti massacri politici della storia latinoamericana. 

Inquadrata nel tristemente noto Plan Colombia, la politica cosiddetta di “sicurezza democratica” promossa dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez – vicino al narcoparamilitarismo e vecchio amico del capò della droga Pablo Escobar – e proseguita sotto spoglie solo formalmente più “distensive” del suo successore Juan Manuel Santos, ha prodotto circa 4 milioni di sfollati interni, principalmente contadini poveri e piccoli proprietari terrieri (comprendendo anche i coltivatori di coca, obbligati al lavoro semischiavile dai narcos), costretti dallo Stato ad abbandonare le proprie terre e tentando di sopravvivere grazie agli aiuti umanitari delle Nazioni Unite o della solidarietà di paesi vicini come il Venezuela bolivariano che ha accolto negli ultimi quindici anni di conflitto circa 6 milioni di colombiani, cui ha offerto casa, istruzione, sanità gratuita, lavoro utile e dignitoso.

Conosciute dal 1982 come Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia-Esercito del Popolo (FARC-EP), quest’organizzazione nasce nel 1964 formata da 48 colombiani, di cui 46 uomini e 2 donne agli ordini di Antonio Pedro Marín, conosciuto con il nome di battaglia di Manuel Marulanda Vélez, in onore di un dirigente sindacale assassinato dal terrorismo di Stato colombiano dell’epoca.

In una fase di acutizzazione delle disuguaglianze sociali in America Latina e sulla scorta dell’esempio del Che rispetto alla guerra di guerriglia, imbracciarono i fucili per difendere le proprie vite, famiglie e beni di fronte all’aggressione terroristica dispiegata dallo Stato contro la regione contadina di Marquetalia; perlopiù, questi primi componenti della formazione armata erano contadini poveri e piccoli proprietari che in alleanza con alcuni operai, studenti ed intellettuali misero in piedi la mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari colombiane per costruire una società superiore – il socialismo – sulla base del progetto bolivariano della Patria Grande unitaria, prospera, democratica e libera da qualsiasi ingerenza e sudditanza rispetto alla Comunità internazionale dei gruppi imperialisti USA, UE e sionisti.

Garantire l’indipendenza e la sovranità nazionale del paese, cioè la difesa incondizionata dei diritti umani quali quelli alla vita, al lavoro, alla salute, all’abitare, all’istruzione dei figli, facilitare meccanismi per la costruzione delle vie di comunicazione, per i crediti statali a bassi interessi che permettessero di migliorare le condizioni del lavoro nelle campagne sono stati e continuano ad essere punti programmatici dell’organizzazione che tenta di rispondere, in questo modo, alla negazione dei più elementari bisogni delle masse popolari da parte della classe dominante, sostenuta dalla succursale locale della Chiesa di Roma.

Il raggruppamento guerrigliero delle FARC-EP si definisce una organizzazione politico-militare di orientamento marxista-leninista, contando nel periodo della lotta armata attiva (1964-2016) tra i 15 e i 20 mila membri, 60 fronti, 7 blocchi, reti urbane e milizie popolari di supporto; presenta una direzione politica costituita dal Partito Comunista Colombiano Clandestino – conosciuto localmente come PC3 – e il Movimiento Bolivariano come riferimento della cosiddetta “società civile”, articolandosi attorno alla triade “Partito-Fronte-Esercito”. Un movimento insorgente articolato secondo le più diverse forme di lotta, come si può notare, caratterizzato da una notevole partecipazione e mobilitazione di donne, compagne e madri, che sin dalla prima adolescenza hanno consapevolmente scelto la via della montagna per sopravvivere e resistere alle scorribande criminali dell’Esercito colombiano, dei gruppi paramilitari di estrema destra e del narcotraffico, tre fattori distruttivi della società e dell’economia del paese da decenni.

I combattenti del fronte ribelle delle FARC hanno dichiarato pubblicamente che si “apre una fase nuova della lotta armata per una nuova Marquetalia”.

Spetta a loro comprendere forme, condizioni e risultati della lotta di classe in corso in Colombia: approfittare di questa manifestazione locale della crepa nel sistema politico della borghesia a livello internazionale significa usare qualsiasi appiglio per sottrarre fette crescenti di potere alla classe dominante e cominciare a governare nei reali interessi della classe operaia, del proletariato e del resto delle masse popolari, protagoniste del loro stesso futuro.

In definitiva, per noi comunisti italiani sostenere la lotta rivoluzionaria delle FARC-EP significa, essenzialmente, contribuire a costruire la rivoluzione socialista in Italia e rafforzare così anche la battaglia di lunga durata che i comunisti colombiani conducono da oltre mezzo secolo con il fucile in spalla.

Il primo paese che spezzerà le catene dell’imperialismo aprirà la strada alle masse popolari degli altri paesi a fare lo stesso!

Viva il progetto socialista delle FARC-EP!

Antonio C

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