L’accordo sull’ILVA siglato il 6 settembre ha alimentato una profonda frattura fra quanti avevano l’obiettivo di salvaguardare l’occupazione (più di 10.000 posti di lavoro) e le condizioni di lavoro e quanti invece mettevano al centro la necessità di mettere mano al disastro ambientale e sanitario causato proprio dall’ILVA. Governo, CGIL, CISL, UIL e USB rivendicano il raggiungimento del “miglior risultato possibile, alle peggiori condizioni possibili” e in effetti, benchè Calenda, ex Ministro del lavoro del governo Gentiloni, abbia cercato di salire anche lui “sul carro dei vincitori” (“è lo stesso accordo che avevo proposto io”), si tratta di un risultato importante, a partire dal fatto che tutti i riassunti sono inquadrati con le condizioni contrattuali precedenti e tutelati dall’articolo 18. I comitati ambientalisti di Taranto, giustamente, gridano vendetta perché per quanto nell’accordo siano previste alcune misure a salvaguardia dell’ambiente e della salute, esse sono del tutto insufficienti e, anzi, Mittal ha ottenuto l’immunità penale in caso di violazioni delle norme di tutela ambientale (cioè nell’accordo è scritto ciò che per i padroni è stato fino ad oggi un “diritto” non scritto). Sommovimenti legati alla frattura fra i due fronti si sono riversati sul M5S (che a Taranto ha perso non solo moltissimo del suo elettorato, ma anche esponenti locali) e nel movimento sindacale (una parte del sindacalismo di base rigetta il contenuto dell’accordo e promuove mobilitazioni in proposito).
Per orientarsi in questa situazione è necessario alzare lo sguardo: l’accordo, che ovviamente ha raccolto il favore della maggioranza degli operai ILVA al referendum del 12 settembre, ripresenta drammaticamente il ricatto tipico del capitalismo fra diritto al lavoro e diritto a vivere in un ambiente salubre e alla salute. E’ in effetti inaccettabile che una produzione abbia un impatto devastante sulla salute delle masse popolari, a maggior ragione se, ed è questo il caso, esistono sistemi e procedure per evitarlo. Solo che i sistemi e le procedure per evitarlo hanno un costo che nessun capitalista e nessun governo vuole sostenere. Hanno quindi perfettamente ragione tutti quei cittadini di Taranto che lottano per il diritto a una vita dignitosa, che nel loro caso significa eliminare la causa dell’avvelenamento dell’aria, dell’acqua e del suolo che provoca un numero enorme di tumori e altre malattie.
Ma era ed è completamente sbagliato l’obiettivo di chiudere l’ILVA. Non in nome della produttività e dei profitti dei capitalisti, non solo in nome del fatto che è una azienda strategica, ma principalmente perché i primi e i principali alleati nella lotta per il diritto a vivere in un ambiente salubre delle masse popolari sono proprio gli operai dell’ILVA, che in “quell’inferno” ci lavorano per trarne quanto necessario per sfamare le proprie famiglie, le stesse che si ammalano come tutte le altre, più di tutte le altre.
La parola d’ordine “chiudere l’ILVA”, condita da improbabili piani per il ricollocamento di più di 10mila operai ha come unico significato e risvolto pratico l’affidarsi completamente nelle mani di quelle autorità e istituzioni che per decenni non solo hanno permesso lo scempio del territorio, ma ci hanno speculato. Non esiste alcuna ragionevole possibilità che, una volta smantellata e frammentata l’unica forza che può decidere le sorti dell’ILVA, la classe operaia, padroni, sciacalli, pescecani e amici degli amici manterrebbero – manterranno – anche solo una delle belle promesse che fanno oggi.
Dopo la firma dell’accordo, i fautori di questa linea (sia quelli che si palesano, sia quelli che non hanno il coraggio di farlo, ma si appigliano dove possono per portare acqua a quel mulino) commentano: “a Taranto si continua a morire”. Ma a Taranto si continua e si continuerà a morire tanto più quanto più si mette a fuoco il nemico sbagliato; fra morire di tumore con l’ILVA aperta e morire di tumore con l’ILVA chiusa (dato che nessuno prenderà iniziativa di fare le bonifiche senza la forza della mobilitazione della classe operaia) non ci sono grandi differenze immediate. Ce ne sono, invece, in prospettiva.
L’accordo firmato, deve essere chiaro, non garantisce neppure che sia disinnescato il ricatto occupazionale: non basta un accordo per addomesticare i padroni, tanto meno se si tratta di una multinazionale che ha come obiettivo principale diventare monopolista e disporre a proprio piacimento, al servizio dei suoi propri specifici interessi, degli impianti di cui è proprietaria in tutto il mondo. Quindi per non cadere in mano ai manovratori e ai mestatori nel torbido è bene fissare un punto fermo: l’accordo non è e non deve essere inteso come la fine della battaglia. Anzi, la battaglia continua da una posizione più avanzata, la classe operaia di Taranto ha mantenuto quella compattezza che la porta ad essere, più di quanto lo fosse prima, la principale forza in campo alla testa della mobilitazione delle masse popolari. Il tempo della “buona fede” è finito. Chi sostiene che sia possibile una lotta per il diritto a vivere in un ambiente dignitoso senza il coinvolgimento in prima linea della classe operaia dell’ILVA è ingenuo o bugiardo. Chi alimenta la contraddizione fra cittadini e operai (come se questi non fossero cittadini…) è un irresponsabile o è un corrotto.
La mobilitazione della classe operaia dell’ILVA è la chiave per vincere la battaglia che deve continuare: Mittal cercherà in tutti i modi di non attuare l’accordo e attiverà tutte le possibili clausole che le permettono di sfuggire ai suoi obblighi. Per impedirlo bisogna subito passare all’attacco per costringerla, invece, a risanare e bonificare. Chi sostiene di perseguire gli interessi delle masse popolari dovrà sostenere attivamente questa mobilitazione, a partire dalle istituzioni locali e dal governo nazionale. Mittal ha dovuto “cedere qualcosa” per siglare l’accordo, ora va messa in condizione di dover cedere ancora. E se non cede, bisogna costringere il governo alla nazionalizzazione di ILVA.
Il caso ILVA non riguarda solo un’azienda, per quanto importante, o una città, per quanto in emergenza: è l’esempio e il simbolo dei ricatti a cui sono sottoposte le masse popolari di tutto il paese, le sue prospettive e il suo esito sono strettamente legate alle sorti dei lavoratori, delle masse popolari, delle aziende (del diritto al lavoro) e della salvaguardia dell’ambiente (diritto alla salute) di tutto il paese. Per questo è necessario continuare a combattere e puntare a vincere.