I Consigli di Fabbrica degli anni Settanta

Edizioni Rapporti Sociali – 240 pagine – 15 euro + 6 euro spese di spedizione

Libro Consigli di Fabbrica

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Introduzione

Nel nostro, come negli altri paesi imperialisti, si moltiplicano le iniziative e gli organismi con cui gli operai e il resto delle masse popolari resistono alla crisi sanitaria, economica e sociale che la pandemia da Covid-19 ha fatto scoppiare. I comunisti devono moltiplicare questi organismi, rafforzarli, coordinarli, orientarli a costituire un proprio governo d’emergenza e a farlo ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia (il Vaticano, la Confindustria e le altre associazioni padronali, le Organizzazioni Criminali, le agenzie dei gruppi imperialisti europei, americani e sionisti operanti nel nostro paese), approfittando del fatto che questi ultimi incontrano difficoltà crescenti a dare un indirizzo unitario all’attività del loro Stato e della Pubblica Amministrazione e a imporre alle masse popolari l’obbedienza alle leggi e alle disposizioni delle autorità.

Il movimento dei Consigli di Fabbrica degli anni Settanta è ricco di insegnamenti e spunti proprio su come possono sorgere, rafforzarsi ed estendersi organismi di operai nelle aziende capitaliste e di lavoratori nelle aziende e istituzioni pubbliche; sull’azione che questi organismi possono svolgere verso altri settori delle masse popolari; su come si possono creare le condizioni per far ingoiare ai vertici della Repubblica Pontificia un governo d’emergenza delle masse popolari organizzate.

Nelle interviste i lettori troveranno sia gli ultimi lampi della prima ondata della rivoluzione proletaria (1917 – 1976) che si esauriva sia i primi bagliori della nuova ondata che cominciava a svilupparsi. Gli anni Settanta sono stati infatti una fase di passaggio, di svolta. I caratteri fondamentali di quella svolta sono stati tre.

1) Una rottura generale nel movimento comunista costituita:

– Dall’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale: nei primi paesi socialisti con il consolidamento della direzione dei revisionisti moderni iniziata con il XX Congresso del PCUS nel 1956 (sconfitta della Rivoluzione Culturale Proletaria e avvento dei revisionisti moderni al potere anche nella Repubblica Popolare Cinese); nei paesi imperialisti con la confluenza dei partiti comunisti guidati dai revisionisti moderni nella sinistra borghese (in Italia il “compromesso storico”, in Francia il “programma comune” con Mitterrand, in Spagna la “transizione democratica”, ecc.); nei paesi oppressi con il passaggio dalle rivoluzioni antimperialiste di liberazione nazionale alla reintegrazione nel sistema imperialista mondiale (neocolonialismo). Per quanto riguarda il nostro paese, in quegli anni il PCI fu contemporaneamente sia il partito della classe operaia nel senso che il grosso degli operai attivi facevano parte del PCI, sia uno dei partiti della corrente mondiale dei revisionisti moderni guidata dal PCUS e poi della sinistra borghese. A differenza dei revisionisti moderni (Togliatti, Amendola, ecc.) che proclamavano l’obiettivo del socialismo ma non lo perseguivano, la sinistra borghese abbandonava anche la proclamazione del socialismo come obiettivo del PCI e ripiegava (con Berlinguer) sulla “questione morale”, su “un altro mondo possibile”, ecc., facendo apertamente assumere al PCI il ruolo di ala sinistra dello schieramento dei partiti borghesi;

– Dalla dimostrazione dell’incapacità dei gruppi marxisti-leninisti di costruire partiti comunisti capaci di promuovere la rivoluzione socialista (in Italia casi esemplari furono il PCd’I – Nuova Unità e il PC(m-l)I – Servire il popolo). All’inizio degli anni Sessanta, il Partito Comunista Cinese lanciò nel movimento comunista internazionale la battaglia contro il revisionismo moderno che aveva eretto a linea generale la “via pacifica, elettorale e parlamentare al socialismo”. È sull’onda di questa battaglia che una parte della sinistra del PCI ruppe con la destra e formò i gruppi del movimento marxista-leninista che costituirono il PCd’I e poi il PC(m-l)I. Questi però non opposero alla “via pacifica, elettorale e parlamentare al socialismo” una loro strategia: la successione dei passi da fare per arrivare, posizione dopo posizione, alla conquista del potere e all’instaurazione del socialismo. I gruppi marxisti-leninisti si limitarono a opporre il ristabilimento dei principi del marxismo-leninismo apertamente rigettati dai revisionisti moderni e dalla sinistra borghese. Quindi non superarono i limiti che avevano reso la sinistra del PCI incapace di far fronte con successo alla destra, non si liberarono mai da questi limiti, donde la loro sterilità;

– Dalla deviazione verso il militarismo dei gruppi della lotta armata esplosa in molti paesi imperialisti al culmine del “capitalismo dal volto umano”. Le Brigate Rosse raccolsero la necessità di conquistare il potere e di trasformare la società che le stesse lotte rivendicative alimentavano nella classe operaia e nelle masse popolari. Da qui il sostegno, l’adesione e il favore che esse raccoglievano tra le masse popolari e gli operai, testimoniati dal loro radicamento in fabbriche importanti, ma più ancora dalle misure che la borghesia dovette adottare per isolarle e dalla persistenza della loro influenza anche dopo la loro sconfitta. La ramificata presenza delle Brigate Rosse nelle grandi fabbriche è stata la massima espressione del “dualismo di potere” esistente nelle fabbriche e nella società e ha dimostrato che per avanzare era indispensabile la direzione del partito comunista.

Le Brigate Rosse con il loro progetto di ricostruire il partito comunista tramite la propaganda armata furono la prima organizzazione che non solo ruppe con i dirigenti revisionisti del PCI, ma oppose apertamente alla loro “via pacifica, elettorale e parlamentare al socialismo” una sua propria strategia, la lotta armata. In questo modo le Brigate Rosse misero in evidenza il limite dei gruppi marxisti-leninisti, ma esse deviarono rapidamente verso il militarismo (sostituire l’attività delle masse popolari con le proprie azioni armate) e questo portò alla loro sconfitta.

2) La ripresa in mano da parte della borghesia imperialista della direzione del corso delle cose a livello mondiale, direzione che il movimento comunista le aveva strappato a partire dal 1917 con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre in Russia e la costruzione dell’Unione Sovietica di Lenin e di Stalin: il movimento comunista per alcuni decenni aveva costretto la borghesia imperialista a “rincorrerlo”, a darsi come “programma comune” a livello mondiale il suo soffocamento.

3) Il passaggio del sistema imperialista mondiale dal “capitalismo dal volto umano” alla seconda crisi per sovraccumulazione assoluta di capitale con il connesso inizio della nuova “situazione rivoluzionaria in sviluppo” che dura tutt’ora. In Italia questo passaggio si concretizzò, nel campo della borghesia imperialista nel “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia (1981) e nell’inizio della privatizzazione dei servizi e del settore pubblico dell’economia; nel campo delle masse popolari a) nella svolta del movimento sindacale verso la compatibilità delle richieste sindacali con le esigenze dei capitalisti e la concertazione della politica economica tra le “parti sociali”: Stato, associazioni padronali e sindacati di regime (la svolta dell’EUR del 1978 capeggiata da Lama, lo scioglimento dei Consigli di Fabbrica e la dissoluzione della Federazione Lavoratori Metalmeccanici) e b) nella nascita, per reazione spontanea, del sindacalismo alternativo (ai sindacati di regime) e di base (Cobas).

I comunisti del nostro paese troveranno in queste interviste un incitamento a non cedere al disfattismo e all’attendismo: esse testimoniano infatti che la borghesia è impotente quando le masse popolari dispiegano la loro forza. E troveranno anche mille suggerimenti sul ruolo che devono svolgere perché le masse popolari dispieghino effettivamente la loro forza. Non sono i padroni a essere forti, sono gli operai, gli altri lavoratori e il resto delle masse popolari che devono ancora far valere la loro forza. Sta ai comunisti fargliela dispiegare!

La Redazione – dicembre 2020

Presentazione

Nell’autunno del 2019, all’interno della campagna “Il primo assalto al cielo” (Biennio Rosso, Internazionale comunista, Autunno Caldo) il Partito dei CARC ha promosso iniziative in molte città e tra queste anche dibattiti per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’Autunno Caldo del 1969. L’Autunno Caldo segnò nelle aziende capitaliste la fine della stagione di soffocamento della Resistenza iniziata dopo il 1948 (Commissioni Interne votate sotto ricatto, licenziamenti discriminatori, reparti confino, ecc.) che il Luglio ’60 aveva solo incrinato, coincise con lo sviluppo della Rivoluzione Culturale Proletaria del popolo cinese (1966-1976) e aprì la lunga stagione di lotte con cui la classe operaia e le masse popolari strapparono le tutele, i diritti e le conquiste di civiltà e benessere che la classe dominante ancora oggi non ha finito di cancellare.

Una delle conquiste più importanti di quel sommovimento radicale e profondo che durò fino all’inizio degli anni Ottanta fu l’affermazione dei Consigli di Fabbrica (CdF) su scala sempre più estesa. Essi vennero riconosciuti nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori come la forma organizzata degli operai della singola azienda al posto delle Commissioni Interne, le precedenti strutture di rappresentanza costituite da operai indicati e patrocinati dai sindacati.

I CdF sono stati lo strumento attraverso cui centinaia di migliaia di operai hanno iniziato a far valere la forza della loro organizzazione in modo autonomo, a legare, senza mediazioni, le mobilitazioni dentro le aziende con le mobilitazioni all’esterno delle aziende, quelle degli studenti, delle masse popolari dei quartieri, contro il carovita, per il diritto alla casa, contro il fascismo e la repressione.

Parte di quella esperienza è stata raccolta in interviste ai lavoratori che vi hanno partecipato in modo attivo e da protagonisti. Le loro testimonianze sono preziose per tutti gli operai e i lavoratori di oggi, per gli studenti, le donne e tutti coloro che sono mobilitati contro la chiusura, la delocalizzazione e la riduzione delle aziende, che lottano contro le grandi opere dannose e per la tutela dell’ambiente in cui viviamo, che si oppongono allo smantellamento dei servizi ancora pubblici (sanità, scuola, ecc.) e alla cancellazione delle altre conquiste ottenute con le lotte dei decenni passati, quando il movimento comunista era forte in Italia e nel mondo, che vogliono organizzarsi per la riscossa.

Dalle parole di questi operai e lavoratori emerge che i CdF si affermarono in modo diseguale e in tempi diversi, a seconda dei rapporti di forza costruiti nelle fabbriche. Così il giudizio sull’operato delle Commissioni Interne, che nella fabbrica fino all’affermazione dei Consigli erano, a volte, l’unico referente per gli operai, è in alcuni casi contraddittorio. In particolare, fra gli intervistati più anziani, coloro che sono entrati in fabbrica a fine anni Cinquanta-inizi Sessanta, non c’è una netta presa di distanza dalla Commissione Interna, soprattutto se i rappresentanti, pur essendo nominati dal sindacato, erano comunque legati agli operai. Gli intervistati entrati giovani in fabbrica alla fine degli anni Sessanta portarono nuove istanze di affermazione dei propri diritti, si trovarono a vivere la stagione dei rinnovi contrattuali, in particolare il CCNL dei metalmeccanici del 1969, presero coscienza del loro ruolo di avanguardia all’interno della fabbrica. Le occupazioni, le manifestazioni, i blocchi stradali, la resistenza alla repressione padronale produssero nei lavoratori la consapevolezza che per vincere era necessario prendere in mano il proprio destino, organizzarsi in strutture che potessero esprimere la democrazia diretta che era stata praticata nelle lotte. I giovani operai d’avanguardia, entrati da poco a lavorare, furono i protagonisti del movimento dei CdF.

I CdF nacquero dapprima nelle fabbriche che avevano trascinato la stagione delle lotte, per estendersi poi anche alle realtà più piccole come la Stucchi di Colle Val d’Elsa (SI). Essi sorsero tanto nelle fabbriche più grandi come la FIAT Mirafiori di Torino e in quelle di zone con una lunga tradizione “rossa” (ad es. Piombino), quanto nelle fabbriche delle cosiddette “zone bianche” (ad es. la Philco di Brembate Sopra). In altre zone i CdF si affermarono più tardi, come alla Fiat di Cassino o alla Carbosulcis.

L’aspetto caratterizzante dei CdF, come emerge da tutte le interviste, era il fatto che i delegati venivano eletti direttamente dagli operai dei reparti indipendentemente dall’appartenenza o meno a un sindacato e che potevano essere revocati in ogni momento. Un altro aspetto importante fu la costituzione di Consigli di zona o provinciali (Rodhiatoce nel Verbanese, Philco e Magnani nel Bergamasco, nel Bresciano, ecc.) che, coordinandosi, potevano assumere decisioni fondamentali per la riuscita di una lotta di interesse generale.

I CdF in quegli anni assunsero il ruolo di nuove autorità sia all’interno della fabbrica che all’esterno, nel sociale.

In fabbrica i delegati di reparto esercitarono il controllo operaio sui processi produttivi, sui turni e i ritmi di lavoro, le ferie, gli infortuni e le malattie; attraverso la contrattazione aziendale riuscirono a strappare importanti conquiste normative, mobilitando i lavoratori, attraverso assemblee, scioperi di reparto anche di poche ore, occupazioni e picchetti. In molte fabbriche la spinta operaia portò anche gli impiegati a mobilitarsi su un terreno di lotta comune.

L’apertura verso l’esterno fu un fattore che legò la classe operaia al resto delle masse popolari, come dimostrano le “tende in piazza” che furono punto di riferimento per altri lavoratori in lotta e per tutta la cittadinanza, compresi studenti, artigiani e commercianti. Lo mostrano l’esperienza del Comitato di lotta degli Ospedali Riuniti di Bergamo, la Tenda della Philco, l’esperienza della “Tenda per il lavoro” a Massa, la “Tenda del contratto” a Piombino, l’occupazione a oltranza delle miniere di carbone del Sulcis.

Le lotte per la salute in fabbrica e la tutela dell’ambiente esterno (come all’Alfa Acciai di Brescia, alla Belleli di Mantova, alla Sanac di Massa, alla Lombardini di Reggio Emilia, all’Italsider di Bagnoli-Napoli, ecc.) riuscirono non solo a portare gli abitanti dei quartieri in cui erano ubicate le fabbriche a solidarizzare e confrontarsi con gli operai, ma anche a suscitare il sostegno di professionisti della salute (come Medicina Democratica di Maccacaro all’Alfa Acciai di Brescia o i medici del lavoro alla Magona e alla Lucchini di Piombino).

Dalle numerose esperienze riportate dagli intervistati emerge anche che i CdF furono in varie occasioni promotori o sostenitori di battaglie che coinvolgevano tutti i settori sociali. Questo grazie al fatto che in quegli anni molti operai si “politicizzarono”. Alcuni che venivano dal PCI cominciarono ad assumere atteggiamenti fortemente critici nei confronti della linea del partito. Altri, soprattutto i più giovani, furono coinvolti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare, che si proponevano di abbattere il capitalismo e instaurare un governo operaio e popolare.

Come afferma una delegata della Fiat Mirafiori “La forza del movimento operaio dentro le fabbriche ha influito molto su ogni conquista degli anni Settanta, vedi ad esempio quelle riguardanti i diritti civili. Il diritto di famiglia, l’aborto, il divorzio, ecc., tutto è frutto delle lotte operaie di quegli anni”. Ma anche sulla lotta antifascista, antimperialista, contro le leggi liberticide, contro la repressione, contro la strategia della tensione (Gladio, P2 e gruppi fascisti con piazza Fontana a Milano, piazza della Loggia a Brescia fino alla stazione di Bologna), per la parità di genere, per il diritto al lavoro, alla casa, alla salute, allo studio, contro l’aumento dei prezzi dei servizi e dei beni di prima necessità, ecc. (come riportano le testimonianze dei delegati della Philco, della Sampas, della Sbisà, della Carbosulcis e tanti altri).

I CdF diedero sbocco e forma organizzativa al forte sentimento della solidarietà di classe che gli operai esprimevano. Sotto questo aspetto sono emblematiche le esperienze riportate da Pietro Vangeli e da Giuseppe Severgnini sulle squadre di volontari che portarono il loro aiuto concreto alle popolazioni colpite dal violento terremoto dell’Irpinia del novembre del 1980 e prima ancora del Friuli nel 1976. Da questi racconti emerge che i volontari riuscirono a costruire in poco tempo un’organizzazione che si preoccupò della ricerca dei superstiti, di trovare viveri, tende, indumenti, medicinali da distribuire alle persone che nel terremoto avevano perso tutto, che spinsero le stesse direzioni aziendali a essere solidali fornendo materiali utili e copertura salariale alle squadre che partivano. I CdF si sostituirono alle “autorità” ufficiali, che erano in preda al caos e alla paura e che dimostrarono la loro incapacità a gestire situazioni d’emergenza di tale portata.

I CdF, nel corso degli anni, subirono gli attacchi concentrici dei padroni, dello Stato, delle dirigenze del PCI e dei sindacati; molti operai d’avanguardia vennero licenziati o messi in minoranza o perseguiti dalla legge. A mano a mano i CdF vennero esautorati e sostituiti dalle RSU, i cui membri sono votati su indicazione dei sindacati. In tal modo i sindacati di regime (CGIL, CISL, UIL e altri minori) hanno potuto riprendere il controllo e rendere di fatto inattuabile la democrazia diretta in fabbrica.

Le interviste che proponiamo si chiudono con la richiesta di un’opinione personale sulla possibilità e necessità di riproporre ai nostri tempi, stante le condizioni attuali, organismi simili ai CdF. Tutti gli intervistati affermano che oggi è necessario costruire organismi operai e popolari che assumano il ruolo di nuove autorità e che l’esperienza del movimento dei Consigli serve per riflettere sul che fare ai giorni nostri. Quanto alla possibilità che questo si realizzi, alcuni degli intervistati sono perplessi, altri pensano che facendo tesoro degli errori del passato si possano trovare delle strade, magari in parte diverse, da percorrere per arrivare a organizzare nuove forme di “contropotere” di classe, altri affermano che per raggiungere questo obiettivo è necessario parlare di comunismo, del partito di classe. Le opinioni di tutti sono specchio dell’insegnamento principale che l’esperienza dei CdF ci consegna: i Consigli di Fabbrica degli anni Settanta (come i Soviet in Russia) sono stati organismi che hanno rappresentato il “dualismo di potere” esistente nella società. Ma in assenza di un partito comunista che organizza il settore più avanzato dei lavoratori e attraverso di essi orienta tutto il movimento delle masse verso la conquista del potere e l’instaurazione del socialismo, prima o poi il movimento rifluisce, la demoralizzazione prende piede e gli organismi si disgregano.

Queste interviste offrono materiale su cui riflettere, indicazioni sul ruolo che i comunisti devono svolgere per far crescere la coscienza di classe, suggerimenti per i lavoratori avanzati su come rendere più incisiva la loro iniziativa individuando i punti deboli dei padroni e dei loro agenti e facendo leva sulle tensioni positive dei loro compagni di lavoro.

Leggendo queste interviste con spirito critico e imparando dalle esperienze vissute e raccontate dagli esponenti dei Consigli di Fabbrica, ogni lettore potrà trovare spunto per cosa fare oggi.

La curatrice della raccolta, Linda Caramia

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