Sciopero a rovescio: quando braccianti ed operai delle Reggiane decisero di ricostruire il paese

Sciopero a rovescio: quando i braccianti e gli operai delle Reggiane decisero di ricostruire il paese

 
Cari compagni, quando Landini ha parlato delle Reggiane e dello sciopero a rovescio ho pensato subito che tanti giovani (anche nel nostro Partito) non sanno cosa hanno rappresentato le Reggiane nella storia del movimento operaio e comunista del nostro paese. Ho pensato a loro e ho scritto questo articolo dedicato a loro, perché siano orgogliosi come lo sono io della nostra storia: che questo orgoglio li spinga a riprendere e portare fino a compimento l’impresa che è stata dei nostri padri e dei nostri nonni!
 
Una compagna della sezione di Reggio Emilia
 
Dal Diario di Bleki:
“16 aprile – Stamane circa 150 operai si portavano in Piazza Prampolini presso il Municipio per dimostrare solidarietà e fiducia al Sindaco Campioli ritornato al suo posto di lavoro dopo due mesi di sospensione illegale per ordine prefettizio [il sindaco Campioli era stato sospeso per non aver preso provvedimenti contro i dipendenti comunali che avevano scioperato in occasione della visita in Italia di Eisenhower!]. Altri 100 operai si recavano a portare la nostra solidarietà ai braccianti che hanno iniziato stamane lo sciopero a rovescio sul Canale Ronchi, accolti anche qui dal grande affetto che lega sempre più la classe operaia con le classi della campagna”.
I fatti narrati da Bleki, operaio delle Reggiane, comunista, si riferiscono allo sciopero a rovescio dei braccianti, avvenuto nella frazione Massenzatico, nella campagna reggiana, il 16 aprile 1951. L’azione si inscrive in un contesto, quello della ricostruzione del paese dopo la distruzione portata dai nazisti e dalle truppe “alleate” nella fase conclusiva della Seconda guerra mondiale. In quel periodo in tutta Italia, da nord a sud, i braccianti si erano organizzati e svolgevano lavori di ricostruzione del territorio: argini e scavo di canali, strade, ponti. I lavori non erano autorizzati e quindi “illegali”, però, allora come oggi, quello che è legittimo non è deciso dalle leggi borghesi.
Il periodo è quello che vede anche l’occupazione delle Officine Reggiane, durata un intero anno (dall’ottobre del 1950 fino all’ottobre del 1951) e decisa dai lavoratori a seguito della volontà della direzione di licenziare 2100 addetti su un totale di 4700.
Il ridimensionamento delle Reggiane si inquadrava in un disegno più ampio di ristrutturazione industriale nell’intera nazione, voluto dagli americani in cambio degli aiuti previsti dal piano Marshall: quale occasione migliore, infatti, per sferrare un attacco mortale alla classe operaia comunista, che aveva fatto la Resistenza per la rivoluzione democratica conquistando a sé le fabbriche? Lo smantellamento delle Reggiane era stato pianificato imponendo all’Italia l’importazione dagli USA: nei trasporti collettivi (settore aeronautico, ferroviario, marittimo), nell’agricoltura e nelle produzioni industriali. Venivano inoltre finanziate le fabbriche italiane di “beni di consumo durevole”: automobili, macchine da scrivere e macchine da cucire.
Gli operai delle Reggiane reagiscono occupando la fabbrica e gestendola dall’interno, attraverso i Consigli di gestione, che sanno contrapporre un piano produttivo ai piani di smobilitazione e rinuncia, e uscendo all’esterno, fuori dalla fabbrica, anche attraverso i loro giornali, Voce Operaia prima e Per la salvezza delle Reggiane poi. L’occupazione della fabbrica viene scelta come forma di lotta contro i tentativi di chiusura, ma è solo un episodio della lunga marcia che porterà i lavoratori a realizzare l’occupazione nella fabbrica. L’occupazione delle Reggiane ha così il supporto dell’intera popolazione: dai piccoli commercianti locali, i bottegai, che forniscono loro i viveri gratuitamente, ai braccianti agricoli, che intervengono a sostegno delle loro agitazioni. È in questo periodo che viene prodotto il glorioso trattore R60. E’ in questo contesto che gli operai organizzano squadre che, in lunghe colonne di biciclette, vanno nei luoghi in cui i braccianti agricoli eseguono i lavori di ricostruzione del territorio che lo Stato non esegue. Durissima è la repressione da parte dei carabinieri: bastonature, distruzione delle biciclette, unico mezzo di trasporto degli operai e dei braccianti stessi. La bicicletta si ripropone gloriosa, come era stata durante la Resistenza, e così come i nazisti prima di loro, i carabinieri tentano di distruggerla. L’impossibilità di tornare a casa in serata non fa che rinsaldare il legame fra operai e braccianti, che ospitano gli operai nelle loro case per poi riaccompagnarli in fabbrica il mattino seguente.
Questo “fare rete”, come diremmo noi oggi, è stato quello che ha reso possibile la resistenza dei proletari. Ha dimostrato che gli operai sono in grado, senza padrone, di fare di più e meglio. Se è vero che gli scioperi a rovescio si incardinano nel Piano del lavoro per il superamento della crisi postbellica e il rilancio dell’economia, lanciato dalla CGIL nel suo congresso del 1949, altrettanto vero è che sono decisi e organizzati dai lavoratori, i quali traducono il piano nella pratica, senza attendere le direttive dall’alto. Se il Piano del lavoro rischiava di rimanere una proposta parziale, la costruzione del R60 rappresenta e unifica ideologia e bisogno materiale (traduzione della teoria nella pratica), sviluppando l’idea degli scioperi a rovescio, come quelli delle lotte bracciantili al Cavo Ronchi.
Le analogie con le esperienze di oggi, come gli scioperi a rovescio che anche il nostro partito ha organizzato (a Cecina e a Napoli), mostrano che è solo dove sono presenti i comunisti che le lotte superano la rivendicazione per passare alla costruzione di un nuovo mondo. E’ stato così alle Reggiane, è così oggi in tutte le realtà in cui i lavoratori passano dalla difesa all’attacco. Potremmo a buon diritto definire i Consigli di gestione operanti nelle Reggiane occupate organizzazioni operaie del nuovo potere popolare. E cosa sono i braccianti, i bottegai e le famiglie del quartiere che facevano rete con gli operai se non organizzazioni popolari? La linea della costruzione di un governo d’emergenza delle organizzazioni operaie e popolari ha le sue radici nella storia del movimento comunista del nostro paese. Con in più, però, un partito comunista deciso a fare delle organizzazioni operaie e popolari le istituzioni del nuovo potere che scalzerà quello dei vertici della Repubblica Pontificia.

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