Intervista a Sauro Checchi sul CdF dell’Ilva di Piombino, una fabbrica importante in una città operaia con una storia gloriosa.
Quando sei entrato all’ILVA e quali erano le condizioni?
Sono entrato all’ILVA nel 1961. Ma prima di parlare della mia esperienza personale vorrei fare una premessa che è fondamentale per capire il contesto: voglio parlare della classe operaia di Piombino, che ha scritto pagine importanti della storia del movimento operaio. Quello che abbiamo fatto nell’Autunno Caldo è stato possibile perché generazioni di operai ci hanno passato il testimone di lotte, cultura operaia, dignità, solidarietà, uguaglianza. Voglio quindi iniziare da più lontano.
Prego…
Nel 1910 proprio alle acciaierie i lavoratori intrapresero delle lotte per migliorare le condizioni di lavoro e salariali; ottennero molto, ma non era un contratto di lavoro perché a quel tempo non se ne parlava nemmeno. Nel 1911 la direzione cercò di riprendersi quello che gli operai avevano conquistato e, prendendo a pretesto un piccolo incidente da cui iniziò una diatriba fra operai e padroni, fece la serrata. Fu una cosa drammatica: gli operai e le loro famiglie furono ridotte allo stremo e vedevi gente che andava a mangiare nella spazzatura. A quei tempi gli anarchici, che avevano la maggioranza nel sindacato, andavano nei negozi un pochino più “elevati”, tiravano fuori la roba e la distribuivano alla popolazione. La polizia ci andò giù duro con la repressione e ammazzò un ragazzo di 15 anni. Le autorità volevano proibire il funerale, a cui invece, quando si tenne, partecipò tutta Piombino. Poi ci fu anche un altro morto legato a questa faccenda: uno che a detta di tutti era un delatore, un informatore della polizia. Un anarchico lo trovò, si scontrarono e l’ammazzò.
A un certo momento la situazione si fece insostenibile. Partì da Piombino un treno con 150 bambini che morivano di fame per andare ospiti in tutta Italia. Ci sono le fotografie della stazione di Piombino piena di gente. La serrata durò più di 5 mesi e riguardò anche lo stabilimento di Portoferraio. Ho avuto la fortuna di incontrare il padre di un mio amico mio e quando casualmente ci trovammo a parlare di quel treno carico di bambini, lui mi disse: “guarda, io ero uno di quei 150 che partirono” e mi raccontò la storia. Disse: “quando si partì da Piombino avevamo le mani sugli occhi perché lasciavamo le nostre famiglie e i posti dove eravamo nati, però poi via via che si arrivava nelle stazioni c’era la banda che ci aspettava e il nostro cuore si allargò, si cambiò completamente umore. Io sono stato ospite di una famiglia a Pistoia e poi sono ritornato a Piombino una volta che le cose si sono rimesse a posto”. Ecco, questo per dire cosa è stata Piombino. Ti leggo qualcosa di Chiaramonte “Gli scioperi della siderurgia di Piombino 1910-1911”. Scrive: “l’esempio che viene da Piombino è di una grandezza epica. Nessuna classe operaia può vantare alcunché di simile. Noi dinanzi a tanto eroismo alziamo il grido di vittoria perché queste battaglie mai possono andare perdute”. Questo è l’Internazionale di Parma del 18 novembre 1911 [una rivista di lotta politica e sindacale dell’epoca- ndr].
Ne dico un’altra. Dopo l’8 settembre, nel 1943, i tedeschi volevano sbarcare al porto di Piombino. In tutti gli altri porti d’Italia sono sbarcati senza sparare un colpo. A Piombino i cittadini con i marinai rimasti si opposero allo sbarco: spararono e ammazzarono più di 100 tedeschi. Infine riuscirono a sbarcare, ma questo episodio valse a Piombino la Medaglia d’oro alla Resistenza!
Vado avanti. Nel 1953 il padrone fece una serrata alla Magona poiché voleva imporre dei licenziamenti. Gli operai occuparono la fabbrica per circa 20 giorni. Una notte entrò la celere, incominciò a picchiare e li buttò tutti fuori. Teniamo conto che questi operai che venivano picchiati nel 1953 erano quelli che dopo la guerra avevano ricostruito la fabbrica. Una volta sgomberata la fabbrica, la direzione pretese dagli operai una lettera di sottomissione e quelli che non la fecero non vennero più presi al lavoro, cominciarono a emigrare a Torino e a Milano o a inventarsi un mestiere. Lì il sindacato ha commesso un grave errore, ma lo abbiamo capito soltanto dopo: se la lettera l’avessero firmata tutti gli operai, non avrebbe avuto alcun valore, non sarebbe stata una lettera di sottomissione.
Che cos’è una “lettera di sottomissione”?
Una lettera in cui ogni operaio si dissociava dall’occupazione e accettava qualunque decisione da parte della direzione… Ecco, questa battaglia si è conclusa così.
Andando avanti, arriviamo al 1960: alla Democrazia Cristiana gli va in crisi il governo. L’incarico di formarne uno nuovo va a Tambroni, che chiede l’appoggio esterno del MSI, i fascisti. Pensa, a soli 13 anni dalla vittoria della Resistenza! L’Italia si solleva tutta spontaneamente, senza che ci fosse un partito che avesse detto niente. Spontaneamente la gente si riversa nelle piazze, soprattutto a Genova, Medaglia d’oro della Resistenza, a Reggio Emilia, in tutte le parti d’Italia. A Reggio Emilia vennero ammazzate cinque persone perché la polizia cominciò a sparare. Venne chiamata “la rivolta dei ragazzi con le magliette a strisce” perché a quei tempi andavano di moda. Nei fotogrammi di quei giorni si vedono queste magliette a strisce che sono in prima fila contro la celere. Anche a Piombino eravamo in tanti compagni, io avevo 23 anni e anche noi scendemmo in piazza. A Piombino non spararono, però la celere, con la bava alla bocca, picchiava donne, bambini e vecchi. Comunque dopo qualche giorno Tambroni fu costretto a dare le dimissioni: anche Piombino aveva dato il suo contributo.
Ecco che ci avviamo a grandi passi al 1968. Veramente il movimento del ‘68 comincia a Berkeley, negli USA, nel 1964 e di lì estese a macchia d’olio in tutto il mondo. In Italia il primo segnale fu la facoltà di sociologia a Trento dove gli studenti occuparono nel 1967. Fu un colpo duro anche per la DC, perché Trento e “le regioni bianche” erano un suo feudo. Si cominciò a parlare di classe operaia, di vertenze aziendali e all’inizio del ‘68 ci furono le occupazioni delle Università di Milano, Torino, Bologna, Roma, Reggio Emilia. Cominciavi a vedere gli studenti anche nelle manifestazioni degli operai, venivano insieme a noi ai picchetti. Cominciarono le vertenze aziendali e poi ci fu lo sciopero nazionale per le pensioni, indetto da tutte le tre organizzazioni sindacali. Non ci fu un grande risultato, ma fu uno sciopero generale che fermò tutto il paese.
Queste furono le prime avvisaglie. Poi, a luglio, i sindacati si incontrarono per buttare giù la piattaforma del Contratto dei metalmeccanici. Fu una discussione accesa perché c’erano varie spinte per contrattare al ribasso. Però, da ultimo, venne fuori una piattaforma importante. Noi all’inizio della lotta per il Contratto del ’69 montammo una tenda nella piazza più importante di Piombino. La tenda del sindacato diventò la tenda di tutta la popolazione. Venivano tutti, c’era la coscienza e la consapevolezza che se il Contratto fosse andato bene, sarebbe andata bene per tutta la città. Quindi la tenda era un punto di raccordo con la popolazione e il sindacato. Addirittura ci venivano proposte delle iniziative di lotta.
Ecco, siamo all’Autunno Caldo. Hai detto che la tenda era diventata punto di riferimento della popolazione: chi veniva a proporvi iniziative e mobilitazioni?
Un po’ tutti, tutta la popolazione. Venivano i familiari degli operai, ma anche i commercianti e gli artigiani. Era la “Tenda del Contratto”, tutti si sentivano, ed erano, coinvolti. Una notte i fascisti ce la bruciarono e noi la rimontammo subito più grande. Aumentammo i turni di sorveglianza, soprattutto la notte, e la tenda resistette infatti fino alla firma del Contratto. I fascisti non si videro più, tornarono nelle fogne dove sono sempre stati. Le manifestazioni per il Contratto furono meravigliose, perché “operai e studenti uniti nella lotta” era il grido unitario di generazioni diverse. Gli studenti che insieme a noi lottavano, loro per una cosa, noi per un’altra, ma tutti volevamo cambiare la società.
E il contratto del 1969 ha cambiato la società, secondo te?
Beh, un contratto è un contratto. Ma quello fu particolare. Venne firmato il 2 dicembre del 1969. Il suo contenuto è importante. Prima di tutto, la cosa principale, fu l’istituzione del CdF: venivano soppiantate le vecchie Commissioni Interne, che avevano operato spesso gloriosamente pur non avendo accesso diretto alla fabbrica: venivano infatti relegate in una stanzetta degli uffici della direzione e solo per concessione della direzione, non perché il loro ufficio fosse riconosciuto. Sono state gloriose per questo, perché operavano senza nessun riconoscimento e nessun diritto, senza niente. I CdF soppiantarono le vecchie Commissioni Interne. Cosa significava? Significava aver ottenuto una struttura per riunirci.
I CdF erano l’espressione di tutti i delegati della fabbrica: ogni reparto eleggeva i suoi delegati. I delegati di tutti i reparti formavano il CdF, che a sua volta eleggeva un esecutivo. I 9 membri dell’esecutivo dell’ILVA erano esentati dal lavoro in produzione ma ricevevano il salario pieno e avevano a disposizione uffici e stanze per svolgere la loro attività all’interno della fabbrica. Erano staccati dai reparti, ma stavano in fabbrica, erano sempre lì.
Ecco, l’esecutivo aveva contatti continui con tutti i delegati: io avevo un problema nel mio reparto? Andavo dall’esecutivo, lo ponevo e insieme si guardava di risolverlo. I CdF all’inizio furono una cosa seria perché, capisci, venivano fatte le assemblee anche nel reparto, si fermava il reparto quando c’erano le assemblee, io andavo lì e dicevo: “fermi, dobbiamo fare assemblea!”. Ci si riuniva tutti nella stanza e si discuteva fino in fondo di tutti i problemi del reparto. Per diversi anni le cose hanno funzionato. Questa qui fu la più grande conquista del contratto del 1969 dal punto di vista politico.
Poi c’era il resto: un immediato e congruo aumento salariale, la parità normativa operai-impiegati, ecc., ma soprattutto la malattia pagata. La situazione in fabbrica, prima del CCNL del ‘69, era che se ti ammalavi era una tragedia perché i primi giorni non te li pagavano, cominciavano dall’undicesimo giorno. A me è successo: mi ruppi una gamba [l’infortunio sul lavoro era già riconosciuto, ma Sauro si ruppe la gamba fuori dal lavoro- ndr] e mia moglie era disperata. Anche se avevi la febbre andavi a lavoro col termometro sotto il braccio e gli altri lavoratori sopperivano a quello che non facevi tu.
Quando un compagno di lavoro si ammalava di una malattia abbastanza lunga, facevamo delle collette, raccoglievamo sottoscrizioni e le portavamo alla famiglia. Ora, tu capisci che la colletta non risolveva il problema di quella famiglia, ma era importante l’atto in sé… quegli atti erano l’espressione, come ti posso dire, della parola compagno, “colui che condivide il pane”. Questo era il significato di quei gesti che non risolvevano il problema, ma il problema esisteva. Ed era anche mortificante per certe famiglie. Però nello stesso tempo era appagante, perché vedevano che i lavoratori, i compagni di lavoro dell’ammalato, c’erano.
Quindi questa era una situazione che doveva finire. Nel Contratto di lavoro ci doveva essere la malattia pagata e nel 1970 noi iniziammo ad avere la malattia pagata.
Sull’onda lunga del contratto di lavoro del 1969, nel 1970 è stato votato al parlamento lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, diventato legge!
Comunque, facendo un passo indietro, per capire l’importanza del Contratto dei metalmeccanici bisogna ricollegarsi a quella che era la realtà di quei tempi. La siderurgia era il cuore pulsante di una nazione, se si fermava, fermava tutto. Era un reparto strategico e quindi noi avevamo questa responsabilità e la controparte lo sapeva, quindi non solo in Italia, ma in tutta Europa si guardava a noi, a cosa ottenevamo e cosa chiedevamo. Addirittura eravamo i rompighiaccio di tutte le conquiste, perché dopo averli conquistati noi, se ne facevano tesoro anche tutte le altre categorie. Sicché pensa la resistenza che c’era nella controparte: i padroni erano coscienti di questo.
Passando a un’altra questione: di sicuro sai della lotta che c’è tra difesa dell’ambiente e difesa del lavoro, della discarica della Lucchini che inquina. Durante l’Autunno Caldo avevate avuto questioni del genere tra necessità di difendere il lavoro e difendere l’ambiente: sull’ambiente che cosa pensavate?
Nell’Autunno Caldo dicevamo che i miglioramenti delle condizioni della vita sono la diminuzione dell’orario di lavoro quindi più tempo libero, più possibilità per la gente di capire e di leggere. Però in fabbrica non ci ponevamo il problema dell’ambiente, non c’era ancora la consapevolezza. Iniziò nel 1983-84, quando venne l’ASL per farci fare gli esami sugli acciai al piombo.
Cosa che hanno proposto anche oggi…
Noi a quei tempi non sapevamo niente della lavorazione dell’acciaio al piombo. Cominciammo a prendere dei libri, a studiare, allora venimmo a sapere che il saturnismo è una malattia dovuta all’esposizione al piombo e provoca danni fortissimi al fisico di chi ci lavora a contatto: dolori, malattie epatiche, impotenza, tutta una serie di cose. Tanto che allora noi pretendemmo una cosa chiara: “noi non siamo contro gli acciai al piombo, però perché noi si possa lavorare l’acciaio al piombo voi ci dovete dare tutta una serie di miglioramenti nel nostro reparto”. Si parlò di cappe di aspirazione, si parlò di controlli a persona ogni 15 giorni. Le persone dovevano essere controllate perché, anche se il veleno con cui venivano a contatto era lo stesso, la reazione è diversa da persona a persona. Loro invece proposero controlli a campione. Che campione? Niente! Noi si rigettò tutto e gli acciai al piombo non si fecero.
Secondo te, come mai quelle esperienze così importanti di cui hai parlato sono andate perse?
Il sindacato in fabbrica ha funzionato due, tre, quattro anni, poi via via ha funzionato sempre meno. Perché tendevano a esaurirsi le conquiste del ‘69? Perché pian piano il sindacato è diventato verticistico. Il CdF era esautorato, le cose venivano decise nell’esecutivo e poi portate al CdF; a livello nazionale venivano discusse con la controparte e poi portate allo stabilimento per discuterle e noi si doveva approvare con tacito consenso.
Noi dicevamo: il sindacalista nominato per l’esecutivo, due mandati e poi torna al posto di lavoro. Perché non ci può essere un rapporto conflittuale col sindacalista che è anni che è in rapporto con il dirigente dello stabilimento… subentra per forza un rapporto amichevole. Allora noi si diceva: due mandati e al lavoro, a meno che non ci fosse una punta di diamante per il nazionale. Ci fu il congresso della FIOM e venne uno dal nazionale, Eroldi. Io fui incaricato di leggere un intervento scritto a più mani. Lo fecero leggere a me perché dicevano che ero la persona più rappresentativa. Lessi questo documento. La platea fischiò e ci insultò, ci espulsero dal sindacato, fui espulso io insieme ad altri. La motivazione era che eravamo dei sovversivi, eravamo contro il sindacato. Ma noi non siamo mai stati contro il sindacato, eravamo contro QUEL sindacato, contro quella linea sindacale.
Poi c’è un discorso comunque più generale. Credo che la disaffezione a certe problematiche è venuta anche da un’impostazione politica diversa. Berlusconi ha “normalizzato” i cervelli. La televisione ha lavorato. E poi anche l’espulsione delle vecchie generazioni come la mia. Noi trascinavamo un po’, dai! Trascinavamo gli altri, anche i giovani che venivano, cercavamo di parlarci, di valorizzare quello che si era conquistato. Era un’educazione, come quando sono entrato in fabbrica. I vecchi compagni di quel reparto mi presero da una parte e mi dissero: “ascolta, noi si conosceva il tuo babbo perché lavorava qui. Noi ti si dice una cosa. Cerca di fare il tuo lavoro e anche qualcosa di più, poi si va a litigare per i nostri diritti, ma prima devi fare il tuo lavoro”. Questa educazione di attaccamento al lavoro c’era. Prima di andare a litigare per i nostri diritti dovevamo avere le carte in regola. Se io non avessi avuto le carte in regola, mi avrebbero licenziato dieci volte. Ma io dove andavo, andavo a lavorare con la granata in mano, spazzavo, perché tutti i lavori sono dignitosi, pur avendo il sesto livello che è il massimo della professionalità. È venuto meno questo.
Secondo te quanta responsabilità ha avuto il PCI in questo?
Tantissima. A un certo punto io mi staccai dal PCI.
Fai qualche esempio…
Te lo faccio subito. A un certo momento, nel 1977, Cossiga era ministro degli Interni, scappò Kappler, un nazista in galera. Il partito disse a noi del direttivo: “bisogna fare qualche iniziativa”. E noi nel direttivo si decise di andare a scrivere per le strade, e tieni presente che scrivere per le strade voleva dire mettere un piantone qui, un piantone laggiù, rischiare la galera e il posto di lavoro, a scrivere Cossiga=SS, Cossiga con la K. Si riempì tutto Corso Italia di scritte. Comunque a colazione la popolazione si alzò e vide tutte le scritte. Non si fece male a nessuno. Però fu una cosa positiva, politica.
Dopo anni, nel 1985, si vota il presidente della Repubblica: viene votato Cossiga con i voti del PCI. Io andai su e dissi: “scusate, ma Cossiga era quello per cui anni fa si è rischiato la galera e il posto di lavoro?”, mi risposero: “dai, no, però, ma…” e io: “questa è la tessera.” E andai via dal PCI. Insomma questo è un esempio, poi ce ne potrebbero essere altri.
Secondo te, oggi, con l’esperienza dei CdF, tu dovessi parlare con gli operai della ex Lucchini, che cosa gli diresti di quella tua esperienza? Secondo te è riproponibile?
È riproponibile, però – lo capisci – la potenza contrattuale che avevi una volta non ce l’hai più. Ripeto, a quei tempi fermare uno stabilimento era un danno enorme che facevi al padronato, ora cosa fai? Cosa fai, che la gente è in cassa integrazione? Io ho preso le distanze dalla fabbrica. Devo aiutare mio figlio, che non ha trovato lavoro perché io ho il circoletto rosso [cioè è “segnato” – ndr], succedono anche queste cose qui.
Però è certo, senza l’organizzazione degli operai non si va da nessuna parte e anche noi non saremmo andati lontano. Ci siamo trovati col CdF contro l’esecutivo, quando il sindacato cominciava a cambiare, a diventare verticistico e non più un sindacato di base. Il sindacato, all’inizio, era un’esperienza straordinaria. Se un operaio saltava volutamente il turno di riposo il delegato veniva e diceva: “guarda torna a casa, che tu oggi dovevi essere di riposo”. Ma perché questo? Perché l’operaio non doveva fare più delle sue 8 ore. Perché c’erano altri che aspettavano di lavorare, perché se tu salti il riposo, e come te ci sono altre 100 persone disposte a saltarlo, levi il lavoro ad altre persone che potrebbero lavorare. Oggi è difficilissimo parlare di queste cose. Oggi ci sono operai che vanno a chiedere gli straordinari. Prima, la parola preponderante era “noi”, oggi la parola preponderante è “io”. C’è differenza, e oggi c’è chi va dai caporeparto a chiedere gli straordinari.
Tempo fa è venuto Capanna che ha parlato di queste persone che hanno abiurato il 68-69. E lui addirittura nel libro Formidabili quegli anni, ripensa a quando Paolo Liguori [esponente di spicco di Lotta Continua negli anni ’70 approdato a Mediaset nel 1993, passando per Il Giornale di Indro Montanelli (1985) e Il Sabato, settimanale vicino a Comunione e Liberazione (tra il 1989 e il 1992)-ndr] lo attaccava da sinistra. E se ne rammaricava perché si sono trovati poi a fare i direttori di giornali, di televisioni, ecc. E io gli ho detto di non rammaricarsi, perché io c’ho una cosa che mi porto dietro da 50 anni: andavamo in un bar… a quei tempi frequentavamo i bar perché non avevamo la televisione e andavamo al bar a vedere programmi come Lascia o raddoppia. Ebbene nel ‘68 o ‘69 incominciarono ad avvicinarsi a questo bar degli studenti perché noi siamo vicini Pisa e Firenze e il padrone era uno di sinistra, molto molto a sinistra (come ti posso dire… era per prendere il fucile) e molto stranamente era un cane sciolto. Noi ci avevamo degli scontri all’interno del PCI, degli scontri anche feroci, a volte si rasentava lo scontro fisico. Insieme a questi studenti ce n’era uno col basco nero, la sciarpa rossa fino ai piedi e si chiamava Paolo Liguori, il suo nome di battaglia era “Straccio”. Una volta in una discussione accesa, io ero del PCI, mi chiamò servo del padrone. No, essere chiamato così da uno come Paolo Liguori…
Comunque dissi a Capanna: “ascolta Mario, tu sei stato uno dei nostri punti di riferimento. Non ti rammaricare, io ho deciso una cosa, ho deciso di non parlare più di queste persone che hanno capovolto il significato del 68-69, che probabilmente erano venuti a fare le manifestazioni ma non ci credevano. Sennò se ci avessero creduto, non avrebbero fatto quello che poi hanno fatto”. Faccio parlare al mio posto Fabrizio De André, che nella “Canzone del maggio 68” parlando di loro a un certo punto dice
“Se avete lasciato fare
ai professionisti dei manganelli
per liberarvi di noi canaglie,
di noi teppisti, di noi ribelli
lasciandoci in buonafede
sanguinare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c’eravate”.
In queste parole, in queste due righe, De André ha detto tutto.
Hai detto che anche dal più ignorante venivano elaborate proposte, elaborate cose, quindi come diceva Gramsci c’era bisogno di operai che studiano, che lavorano, che sappiano dirigere, organizzare. Tu su questo sei d’accordo?
Sì, sì! Vedi, quando iniziarono i CdF cambiò anche l’atteggiamento della direzione nei nostri confronti. C’era più rispetto verso di noi perché avevamo più potere: io potevo andare al forno e dirgli “fermo!”. Ma lo facevo a ragion veduta, se c’era un problema impellente da discutere fermavo la produzione e si andava a discutere. Quando si era discusso si riprendeva. Questo ovviamente non succedeva sempre, avveniva quando c’era un problema grosso da discutere.
Poi non era semplice, c’era anche da andare contro certi atteggiamenti che c’era un filo sottile. Una sera ero a guardare la televisione con mia moglie, mi telefonò un compagno del reparto che conoscevo perché ci lavoravo insieme e mi dice “Sauro – io ero delegato – io sono rientrato dalla malattia, qui sono in più; il capo turno mi vuole mandare all’800 [era un reparto – ndr] che manca una persona: cosa faccio, ci vado?” “E diamine, ci devi andare sì!”. E non m’ha guardato in faccia per mesi, perché pretendeva di stare in quel posto di lavoro senza far niente quando a 100 metri mancava uno. Cioè a un certo punto dovevi avere il coraggio di andare contro certi atteggiamenti che non si potevano neanche capire e quindi smontare queste velleità e andare avanti coi diritti invece che prese di posizione personali che potevano apparire anche ridicole.
Qual è l’insegnamento che trai dalla tua esperienza nel CdF? Che cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
Mi è rimasto che le cose venivano decise da tutti. Venivano i contadini dalla campagna, che poverini erano quelli che erano. Però anche loro, che erano nel reparto, vedevano le cose. Per esempio, una volta uno che sembrava uno sprovveduto fece una proposta: “il dottore non è giusto che ci sia solo di giorno, deve esserci anche di notte”. Per dire, dal più ignorante poteva venire una proposta di questo genere. E noi come delegati si prese questa proposta e si portò in Consiglio di Fabbrica. In CdF venne discussa e si fece qualcosa, per cui da quel momento il dottore entrò anche di notte: perché se per caso succedeva un infortunio grave di notte, il dottore era il primo a dover valutare l’entità.