CdF della Berman di San Benedetto Po (MN) – Intervista a Luigi Franzoni

Luigi, quando hai iniziato a lavorare alla Berman? Esisteva già il CdF? Da chi era composto e come funzionava?

La Berman, nata verso la metà degli anni Settanta, era inizialmente una fabbrica artigiana. Sviluppatasi in pochi anni come indotto della FIAT Iveco di Suzzara, arrivò ad impiegare circa 160 dipendenti. Io vi entrai a fine ottobre del 1977, in un momento di grande espansione. Ricordo che avevo il cartellino n. 197. Il CdF all’epoca era già presente ed era composto da 6-7 lavoratori, in prevalenza della FIOM CGIL o FLM. L’area politica di riferimento dei lavoratori rispecchiava quella del loro territorio di provenienza (S. Benedetto Po e paesi limitrofi) che guardava ai due partiti storici della sinistra, il PCI e il PSI, oltre che alla DC. La maggioranza degli operai erano per lo più giovani tra i 15 e i 35 anni con profili scolastici medio-bassi (licenza media, diploma professionale o di istituto tecnico), mentre la minoranza aveva un’età compresa tra i 36 e i 55 anni e un livello minimo di istruzione (licenza elementare o media). Uno dei due soci della ditta, il dott. F. Bertellini, ricopriva anche la carica di sindaco del paese per il PSI, mentre il ragioniere capo dell’ufficio era il segretario del PSI locale. Il CdF nacque senza grossi problemi favorito anche da queste figure padronali istituzionali che preferivano assecondare i lavoratori per poi attuare una gestione paternalistica. Il CdF si riuniva periodicamente nella saletta messa a disposizione dall’azienda per discutere della gestione della fabbrica, dell’ambiente di lavoro, delle pause, della mensa, degli straordinari, del vestiario, ecc.; dal 1979 divenne frequente parlare di cassa integrazione, turnazioni, rotazione di mansioni, sabati lavorativi, permessi e recuperi.

Qual era il ruolo del CdF dentro la fabbrica? Quali erano i rapporti del CdF con il padrone?

Inizialmente i componenti del CdF avevano un ruolo generale e indifferenziato, poi dal 1979-1980 assunsero il ruolo di rappresentante di linea o di reparto. Crebbero di numero e si formò un esecutivo composto da 3-4 elementi: di solito si trattava delle persone più avvezze ad articolare un discorso e che godevano del sostegno di larga parte degli operai. Erano lavoratori che mostravano un coraggio maggiore nel prendere l’iniziativa quando si doveva protestare – e all’occorrenza fermare la produzione – se, ad esempio, non funzionava il riscaldamento oppure si infortunava qualcuno o si doveva assistere un lavoratore richiamato per addebiti. Era l’esecutivo che aveva il compito di trattare con la direzione aziendale. La pressione sulla direzione veniva poi esercitata collettivamente quando si trattava dei tempi di lavoro, quando mancava il vestiario, quando si contestavano le pause pranzo (arrivammo ben presto ad avere una mensa interna per i turnisti) e poi, in via ordinaria, quando si trattava di problemi contrattuali tipo passaggi di categoria, automatismi, turni di cassa integrazione, straordinari e sabati lavorativi. Il CdF aveva un rapporto critico, ma non sempre coerente, con i funzionari sindacali che accettavano e privilegiavano un rapporto dialogante e sottomesso con il padrone, un rapporto che mirava a raggiungere un’intesa con i vertici a danno delle rivendicazioni operaie. La CGIL era molto sensibile alle richieste di straordinari, anche quando c’era da gestire la cassa integrazione. E ciò, naturalmente, cozzava con le esigenze operaie di giustizia salariale, di rotazione e formazione del personale, di difesa dei più deboli (in primo luogo gli invalidi) e dei più combattivi. Da parte operaia si cercava di favorire i lavoratori a reddito unico, quelli che avevano un carico familiare più gravoso e quelli che non potevano contare su redditi aggiuntivi derivanti da lavori extra (campagna o esercizi commerciali).

Quali erano le relazioni con i CdF di altre fabbriche e con gli organismi popolari presenti sul territorio? E i rapporti con il PCI e le organizzazioni sindacali?

I rapporti con gli altri CdF all’esterno della fabbrica erano improntati soprattutto sulla solidarietà nei momenti di crisi. Questa solidarietà spesso si manifestava quando ormai la crisi aziendale era diventata strutturale ed era più una dimostrazione di “unità nella difficoltà” richiesta dai sindacati, piuttosto che un intervento per evitare chiusure e licenziamenti. Cito gli esempi di OM-Carra e Tasselli di Suzzara in cui vennero mobilitati i CdF di tutta la provincia quando la situazione era ormai compromessa. Durante il periodo di lotta alla FIAT di Torino, protestammo anche alla Berman, che pure risentì della mancanza di rifornimenti, occupando la strada statale e facendo volantinaggio: fermavamo le autovetture, informavamo i conducenti sulle motivazioni della lotta e poi li lasciavamo ripartire.

Altri incontri avvenivano presso le sedi sindacali, dove però i funzionari sindacali (CGIL in testa) dirigevano la discussione in modo da non lasciare spazio alla componente più combattiva. Il periodo 1978-1982 fu quello di massimo scontro tra le avanguardie operaie e la CGIL: ogni proposta o iniziativa di lotta e resistenza al clima intimidatorio padronale per migliori condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori veniva vista e considerata come opera degli amici dei “terroristi” e una minaccia alla democrazia! Il PCI aveva invitato gli iscritti alla vigilanza e a denunciare e isolare tutti i comportamenti non consoni alla linea del compromesso storico.

All’interno dei CdF questo creava confusione e smarrimento. Mentre da una parte cresceva ogni giorno l’arroganza padronale nel tagliare tempi di lavoro, nell’aumentare gli oneri per i lavoratori, nel tagliare le spese per la sicurezza e il rifornimento di materiali di consumo, nell’allontanare i lavoratori più combattivi e gli invalidi con la cassa integrazione (facendo così da sponda al governo che aveva bloccato la scala mobile, cancellato sette festività e tolto gli scatti automatici di anzianità), dall’altra si pretendeva che i CdF approvassero tali misure come “male minore” per difendere la democrazia e rilanciare lo sviluppo. Ci sono stati anche incontri con componenti più radicali del sindacato per organizzare la difesa sui posti di lavoro, ma si trattò di iniziative prese da singoli per confrontarsi con le realtà dei grossi centri dove prendevano piede i comitati contro i licenziamenti.

Quali sono stati gli interventi del CdF negli avvenimenti principali della lotta di classe di quegli anni?

Sul piano locale gli interventi più partecipati e sentiti erano quelli che riguardavano le condizioni di salute in fabbrica, gli scioperi per ripristinare le condizioni minime di tutela (il riscaldamento, i pannelli di protezione dal rumore, le visite mediche periodiche) e la mensa. E in seguito anche quelli per il controllo sui tempi di lavoro.

A livello nazionale ricordo la grande manifestazione di Roma per la scala mobile(1) e poi i volantinaggi al mercato settimanale a S. Benedetto Po (uno dei più importanti della zona) per denunciare la crisi aziendale.

Il CdF aveva un ruolo solo sul piano sindacale, rivendicativo, per strappare miglioramenti salariali e normativi o qualcosa di più? Aveva un ruolo nella lotta per cambiare il paese? Questo aspetto era, secondo te, determinante, trainante per l’organizzazione degli operai?

Il CdF si muoveva in quel periodo in modo cosciente per risolvere i problemi interni alla fabbrica e per resistere al ritorno dell’autoritarismo voluto dalla direzione aziendale. Al contempo, in modo meno unitario e cosciente, si adoperava per l’apertura di maggiori spazi di democrazia e contro la tendenza presente anche nei sindacati ad accettare la devastazione dell’ambiente, l’inquinamento, la perdita di alcuni diritti in cambio dell’energia “pulita”, come era definito il nucleare, propagandato come progresso ineludibile. I CdF furono la spina dorsale del movimento contro le centrali nucleari sul Po(2). La situazione rimase tesa e di scontro frontale sino alla tragedia di Chernobyl (1986), quando anche la CGIL ebbe un ripensamento a 180 gradi.

Avete subito episodi di repressione? E se sì come avete risposto?

Nei primi anni Ottanta faceva impressione qualsiasi forma di contestazione che mettesse in rilievo la distanza tra noi operai e la dirigenza della fabbrica che, come detto in precedenza, rivestiva anche ruoli istituzionali nell’amministrazione comunale e provinciale. Una prima contestazione ci fu con il rifiuto del pacco natalizio da parte di alcuni operai che denunciavano così l’ipocrisia buonista di chi pensava di sanare con un panettone e una bottiglia una situazione di abusi continui sui tempi di lavoro e sulla sicurezza. Poi fu la volta della bacheca sindacale, usata per affiggere manifesti del giornale satirico Il Male(3), e dei volantinaggi di denuncia delle condizioni di lavoro. La direzione della Berman arrivò perfino a chiamare i carabinieri per alcune scritte, apparse nei bagni o nelle postazioni, che inneggiavano all’Autonomia Operaia. Gli attacchi repressivi si verificarono dopo il licenziamento dei 61 operai alla FIAT di Torino(4), nel periodo in cui il PCI e la CGIL ingaggiarono campagne di delazione e isolamento delle avanguardie di lotta, finendo per colpire gli esponenti più combattivi del sindacato e aggravando, in tal modo, la crisi e il distacco dal mondo del lavoro. Le armi più efficaci e pericolose (la dialettica e la controinformazione) in quel tormentato periodo furono silenziate dalla demagogia e dal militarismo. Questi attacchi riuscirono a creare divisioni e confusione all’interno della fabbrica e del CdF: c’era un gruppo più legato al PCI, che già allora si sentiva “Stato”, che appoggiava la repressione e l’intimidazione, mentre altri vecchi compagni per principio difendevano ogni forma di scontro, sfociando spesso nell’estremismo e nella contraddizione.

Come mai secondo te i CdF si sono esauriti?

È stato il corso naturale delle cose che ha portato prima al depotenziamento e poi alla fine dei CdF. Si è trattato di un processo molto simile a quello che succede oggi alle Costituzioni dei paesi democratici, diventate inutili di fronte alle direttive UE e NATO e ai provvedimenti di organismi non eletti, come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.

Quando a metà degli anni Settanta il PCI entrò a far parte dell’area governativa, vennero sacrificati tutti gli strumenti che consentivano scelte dal basso e che facevano parte del patrimonio genetico del movimento operaio. Si partì isolando le avanguardie di lotta, accusate di estremismo e di terrorismo, per poi passare alla selezione dei dirigenti locali e nazionali, in base alle quote di appartenenza politica, tra comunisti, socialisti e cattolici. Si è cominciato a selezionare non sulla base delle capacità politiche e dell’esperienza, ma sul grado di disponibilità ad accettare e trasmettere ordini calati dall’alto. Dopo la crisi della FIAT e la marcia dei colletti bianchi a Torino(5), ci fu un terremoto nel sindacato e nel PCI, che portò quest’ultimo a virare su una linea difensiva e perdente, affossando definitivamente la lotta di classe. Per rappresentare settori politicamente vicini alla dirigenza aziendale, vennero sacrificati e manomessi tutti i principi e i valori di difesa degli ultimi per assumere in toto la visione e le esigenze del padronato (limiti al diritto di sciopero, garanzia dei servizi essenziali, mobilità, flessibilità, assunzione dei rischi, gerarchia, aumenti di produttività, eliminazione degli automatismi, segreto aziendale e libertà di inquinare). Al sindacato fu chiesto di garantire e cogestire la situazione, istruendo le rappresentanze al nuovo compito. E così nacquero le RSU e i direttivi sindacali controllati dall’alto.

Ritieni che oggi sia necessario e possibile far rinascere organismi simili, che facciano tesoro degli errori del passato?

La necessità di ricostruire strutture simili va di pari passo con la lotta per gli spazi democratici messi sotto attacco negli ultimi anni. Non va mai dimenticato che la componente operaia oggi è molto più frammentata di quanto era quaranta o cinquanta anni fa. Ai nostri giorni non è difficile trovare operai che fanno riferimento alla Lega di Salvini o a Fratelli d’Italia. Non esiste un partito di sinistra – neppure come riferimento formale – dal quale attingere una linea, un programma, una prospettiva. La difesa della Costituzione è già un punto di partenza a fronte degli attacchi che la borghesia imperialista e finanziaria porta avanti, forte dell’appoggio di chi invece la Costituzione dovrebbe tutelarla. Una cosa è certa: non è resuscitando ciò che resta del cadavere putrefatto del PCI che risolveremo i problemi, ma lavorando al superamento delle condizioni esistenti, coniugando la difesa del lavoro con quella del territorio, dell’ambiente, con il diritto dei popoli all’autodeterminazione.

Alla luce della tua esperienza come vedi la mobilitazione sviluppata dagli operai della GKN di Campi Bisenzio?

Non ho una conoscenza approfondita della loro lotta, ritengo tuttavia che quando un gruppo di lavoratori si organizza e si mobilita con le famiglie, coinvolgendo anche persone esterne alla propria azienda, esso sia d’esempio per tutti gli altri, perché insegna che non bisogna cedere alle prime difficoltà, soprattutto quando è in gioco il lavoro, che conferisce dignità e autonomia. Indica ad altri lavoratori la strada da percorrere contro parassiti, speculatori, schiavisti, spettatori passivi o interessati. La difesa degli spazi democratici non è morta, così come non è scontata una resa incondizionata ad un sistema che ci opprime.

NOTE

1. Poco più di un mese dopo l’approvazione del “decreto di San Valentino” (14 febbraio 1984) con cui il governo Craxi aveva tagliato la scala mobile, si svolse a Roma, il 24 marzo, la più grande manifestazione dal dopoguerra. In pochi giorni i lavoratori riuscirono ad autoconvocarsi, “forzando la mano” anche a molti dirigenti della sinistra di allora, PCI compreso. Un milione di persone scese in piazza per protestare contro la politica del governo. [N.d.R.]

2. Tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta nella provincia di Mantova si sviluppò una grossa mobilitazione contro la realizzazione, a Viadana o San Benedetto Po, di una seconda centrale nucleare sul fiume Po dopo quella costruita negli anni Settanta ed entrata in funzione nel 1981 a Caorso (in provincia di Piacenza).“Il 20 ottobre del 1983 su iniziativa del Pretore Scappellato nove cittadini di Viadana vennero arrestati dai carabinieri dopo due settimane di blocchi anti-nucleari, fa sapere in un comunicato stampa il Movimento Antinucleare Casalasco Viadanese. Nei giorni precedenti centinaia di manifestanti provenienti da tutta la Bassa avevano impedito in modo pacifico a Torre Oglio e Bellaguarda (Corte Camerlenga) l’accesso ai fondi delle trivelle dell’Enel che dovevano iniziare i sondaggi finalizzati alla costruzione di una centrale atomica nel nostro territorio come previsto dal Piano Energetico Nazionale. Voleva essere un’azione dissuasiva da parte delle forze dell’ordine per intimidire le popolazioni locali e fiaccarne la resistenza ma ebbe l’effetto contrario perché accrebbe la mobilitazione della gente, rafforzò l’opposizione all’energia nucleare e obbligò i politici locali a prendere una posizione chiara e netta che mise fine ad ogni ambiguità. Altri 45 cittadini vennero poi raggiunti da comunicazioni giudiziarie” (da “La notte degli arresti 30 anni dopo”, Il Giornale del Po del 18 ottobre 2013).

Alla mobilitazione parteciparono anche molti agricoltori della zona: alla manifestazione contro il nucleare tenutasi a Mantova nell’aprile del 1984 sfilarono con decine e decine di trattori. [N.d.R.]

3. Settimanale di satira politica fondato nel 1977 da Pino Zac (pseudonimo di Giuseppe Zaccaria) e Vauro Senesi e diretto da Vincino (pseudonimo di Vincenzo Gallo) fino al 1982, quando cessò le pubblicazioni. Il Male divenne famoso soprattutto per le imitazioni delle prime pagine dei principali quotidiani (Repubblica, Corriere della Sera, ecc.) che riportavano notizie inventate. Ebbe molti sequestri e più di cento processi per “offese a capo di Stato estero” (il papa Giovanni Paolo II definito Giampaolo II), vilipendio, diffusione di materiale osceno e altro. [N.d.R.]

4. Il 9 ottobre 1979 la FIAT, dopo aver avvertito in anticipo PCI e sindacati delle sue intenzioni, licenzia 61 dipendenti. Scoppiano scioperi spontanei in tutti i reparti. La FLM dichiara tre ore di sciopero per il 1° novembre, ma la mattina prima dello sciopero diffonde un volantino contro il terrorismo. Nonostante questo, il giorno dello sciopero l’assemblea del primo turno di Rivalta (a cui partecipano più di 2.000 operai) decide all’unanimità di continuare lo sciopero oltre le tre ore sindacali e con la presenza in fabbrica dei licenziati. Immediatamente la FLM e i suoi delegati sabotano la lotta, cercando di isolare i 61 licenziati. Anche in altri stabilimenti si prolunga lo sciopero e proseguono i cortei interni per molti giorni a seguire, nel totale disinteresse del sindacato. Poi il segretario della CGIL Luciano Lama dichiara che la CGIL aspetterà di conoscere le prove di Agnelli, perché “il sindacato difenderà solo gli operai accusati ingiustamente”. La FLM, come condizione per essere difesi dal collegio sindacale nel ricorso contro le lettere di sospensione, impone ai lavoratori di firmare il seguente documento: “Atteso che il sottoscritto dichiara di accettare i valori fondamentali ai quali il sindacato ispira la propria azione e in particolare di condividere la condanna senza sfumature non solo del terrorismo ma anche di ogni pratica di sopraffazione e di intimidazione, per la buona ragione che non appartengono alla scelta di valori, alle convinzioni, al patrimonio di lotta del sindacato stesso, consolidati da una lunga pratica di varie forme di lotta e di difesa del diritto di sciopero, così come risulta dal documento conclusivo del Coordinamento nazionale FIAT approvato all’unanimità a Torino l’11.10.1979 dai membri del Coordinamento stesso, delega a rappresentarlo nel presente giudizio, nonché nella procedura ordinaria, in ogni fase e grado, compreso quello esecutivo…”. Dieci dei 61 imputati firmano, ma denunciano il “ricatto politico inaccettabile da parte del sindacato”. [N.d.R.]

5. Il 14 ottobre 1980 alcune migliaia di impiegati e quadri della FIAT sfilarono a Torino contro i picchetti operai, organizzati dal Consiglio di Fabbrica, che da 35 giorni impedivano loro di entrare in fabbrica. La lotta degli operai, detta invece “dei 35 giorni”, aveva l’obiettivo di impedire 78 mila cassintegrazioni ventilate dall’azienda nel maggio dello stesso anno. Il corteo era una mossa promossa dalla direzione FIAT, vi parteciparono circa 12 mila tra impiegati e quadri, ma il segretario della CGIL Luciano Lama (avallato da tutto il PCI, da Berlinguer a Napolitano) parlò di “marcia dei 40 mila”. La FIAT e i promotori della manifestazione la usarono come dimostrazione lampante e incontrovertibile della debolezza e dell’“isolamento” degli operai. Dalla “marcia dei 40 mila” si arrivò al compromesso dei sindacati (avallato dal PCI) con il quale la FIAT ritirò i licenziamenti, ma mantenne la cassa integrazione a zero ore per 22 mila operai (gran parte dei quali delegati dei Consigli di Fabbrica) sparsi per le fabbriche di tutto il paese. Il tutto venne contrabbandato da FIAT, sindacati di regime, PCI e stampa di regime come “sconfitta del movimento operaio”. [N.d.R.]

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