[Italia] Lettera di Rosalba Romano agli organizzatori e ai partecipanti al dibattito “Vite che contano” (3 ottobre 2020 – Festival di Internazionale a Ferrara)

Assa Traoré è sorella di Adama, ucciso in caserma dalla polizia francese nel 2016

In un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, il 25 luglio scorso, Assa Traoré, che interverrà via streaming al vostro dibattito e a cui mando un abbraccio solidale, ha affermato:“in molti dimenticano che il razzismo uccide proprio qui, nelle nostre città, nella nostra democrazia. Guardiamoci allo specchio allora. La Francia non è solo la Tour Eiffel, Parigi, la moda. La Francia sono anche questi morti.”.
Parto da questa frase perché vorrei che eventi come quello che si terrà domani a Ferrara fossero occasione per affrontare temi importanti come quelli alla base dello sviluppo di movimenti come il Black Lives Matter, guardandoci però anche noi, in Italia, allo specchio. Rivolgendo cioè uno sguardo attento alle molteplici violazioni dei diritti civili, agli abusi giudiziari e di polizia che quotidianamente nel nostro paese intervengono per stravolgere, quando non spezzare per sempre, tante, troppe, “Vite che contano”.
Vite di uomini e donne, bianchi e neri, immigrati e autoctoni, che vengono manganellati, perseguiti penalmente, strozzati economicamente, messi addirittura in carcere per aver difeso diritti che dovrebbero essere pacifici ma per cui invece dobbiamo lottare ogni giorno: il diritto a un lavoro dignitoso, il diritto a vivere in un ambiente salubre, il diritto a esprimere il nostro dissenso.
Una militante NO TAV, Dana Lauriola, è oggi in carcere, condannata a ben 2 anni di prigione per un reato risibile (aver megafonato durante un blocco autostradale) ma di fondo per non aver mai rinnegato la lotta che gli abitanti della Val Susa conducono contro la devastazione del loro territorio.
In contemporanea del vostro dibattito, a Modena, si terrà un’importante manifestazione, indetta dal SI COBAS, per dare una risposta organizzata alle oltre 450 denunce comminate a lavoratori e lavoratrici rei di difendere il proprio posto di lavoro.
Tutto questo mentre i reali responsabili della strage di anziani nelle RSA provocata dalla criminale gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19 non solo siedono ancora ai loro posti, ma continuano a lucrare a nostro danno, a ingrassare la sanità privata, a far chiacchiere per nascondere (neanche troppo) i veri interessi che li muovono: di limitare i contagi a loro interessa ben poco, interessa invece molto di più usare l’emergenza per sperimentare un ulteriore restringimento delle nostre libertà democratiche.
Il vostro Festival si tiene nella città in cui, il 25 settembre 2005, a soli 18 anni, Federico Aldrovrandi è stato ammazzato per mano della polizia. Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri sono i nomi dei poliziotti che lo hanno assassinato. Poliziotti che, condannati a 3 anni e mezzo per omicidio colposo (fa strano – vero? – pensare che l’uccisione di un ragazzo vale poco più di un megafonaggio!), rimangono in carcere solo pochi mesi per poi essere reintegrati nei loro incarichi.
Vite che contano”, quella di Federico, di Patrizia (sua madre) e di Lino (suo padre) spezzate irrimediabilmente.
Riprendo ancora una volta le parole di Assa perché le ritengo estremamente avanzate: “Avevo sentito parlare della violenza della polizia, ma non l’avevo sperimentata sulla mia pelle. Mai avrei pensato di perdere la fiducia nella giustizia, quella Giustizia con la G maiuscola, mitizzata, intoccabile. Ma la giustizia non è Dio. Se non fossimo intervenuti, oggi il caso sarebbe già archiviato e nessun poliziotto condannato. Il giorno dopo la morte di Adama ho smesso di lavorare per dedicarmi anima e corpo a questa battaglia. Così siamo diventati soldati. Da allora cerchiamo di ribaltare la narrazione che identifica noi come carnefici, la polizia come vittima. (..) Unendosi ad altre battaglie. Non si combatte una discriminazione senza solidarizzare con tutte le altre. Abbiamo avuto scambi costruttivi con i Gilets Jaunes, con la comunità Lgbt, con gli attivisti per il clima e tanti altri. Uccidere è la conseguenza diretta di discriminazioni economiche e sociali preesistenti di cui anche noi siamo stati vittime”.
La giustizia è strumento di potere di una classe di sopraffattori e l’unica strada per ottenere almeno una parvenza di giustizia è quella che anche Assa indica: l’autorganizzazione, lo scambio delle esperienze, il coordinamento tra le lotte.

Il 21 gennaio 2021 anche io affronterò, in un’aula di tribunale, quella giustizia. Una giustizia che, con palesi forzature, mi ha già condannato, in primo e secondo grado, per aver fatto mio il lavoro importante di controinformazione sugli abusi di polizia svolto da Vigilanza Democratica, il sito di cui io ero l’intestataria.
Mi hanno condannato già due volte perché, attraverso l’Appello alla società civile Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato?, avrei diffamato uno dei poliziotti imputati nel processo di Paolo Scaroni, una delle tante vittime degli abusi di polizia rimaste senza giustizia.
Un Appello scomodo, perché racconta di una questione che nel nostro paese è ancora tabù, anche se i fatti recenti della caserma “degli orrori” dei Carabinieri di Piacenza hanno indotto qualcuno a porla timidamente: è davvero possibile che tanti casi di abusi di polizia che vedono protagonista uno stesso Reparto, possano essere giustificati con la comoda teoria della mela marcia all’interno del corpo sano?
La verità, che Vigilanza Democratica ha contribuito ad affermare e per cui io sono stata condannata, è che così come non esiste una questione di “mele marce” nel singolo reparto, allo stesso modo non esiste neppure il “reparto marcio” in un apparato democratico.
In una lettera pubblica rimasta senza risposta all’allora vice Ministro dell’Interno, Vito Crimi scrivevo: “Quando viene istituito un processo per un abuso di polizia, esso stesso diviene di fatto la principale dimostrazione che le “mele marce” non esistono. Emergono ben presto infatti, oltre i frutti marci, i loro legami con i rami, si intravedono i legami con il tronco, si intuiscono quelli con le radici e quelli con il terreno in cui le radici sono piantate. Non sono mai le mele ad essere marce, è l’intera pianta che va tagliata e il terreno su cui sorge e da cui attinge va bonificato.”.
A voi che organizzate il Festival, io chiedo di leggere e pubblicare questa lettera e di prendere posizione in mia solidarietà contro due sentenze che incarnano la vergogna che ogni cittadino democratico dovrebbe provare nel “guardarsi allo specchio”.
Guardarsi allo specchio, nel senso inteso da Assa, implica accettare di dare spazio e rispondere a domande come quelle che pongo anche a voi alla fine di questa mia lettera: “Che paese è quello in cui un cittadino comune deve temere di dire la verità, di affermare ciò che “tutti sanno”, ma “nessuno dice”? Quel paese in cui un tribunale condanna con pene ingiuste e sproporzionate chi difende i propri diritti mentre lascia impuniti i colpevoli di crimini gravissimi? Che lo fa trasgredendo, per giunta, le stesse leggi che pretende di incarnare e applicare?
Guardarsi allo specchio, implica difendere, concretamente, il diritto alla libertà di espressione di cui voi, meglio di me, conoscete il valore.
Sono tanti, troppi gli attacchi giudiziari portati a giornalisti, siti on line, e militanti che si sperimentano nella controinformazione (soprattutto rispetto all’utilizzo delle metodologie di repressione e contenimento del dissenso sociale) e tanti casi, messi insieme, fanno purtroppo pensare che dietro la querela sporta da un singolo contro un altro singolo, ci sia molto di più. Tanti casi, messi insieme, dicono che esiste la volontà politica di colpire il diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, quando chi lo esercita si discosta troppo da versioni atte a intossicare l’opinione pubblica con verità di comodo.
Sta anche a voi opporvi a questo meccanismo.

Rosalba Romano

[Per ulteriori approfondimenti sulla mia vicenda giudiziaria cliccate qui]

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